A Obama lo dissero i talebani «Voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo» – spiegarono ad un presidente convinto di piegare la guerra afghana ai tempi della propria politica. Dopo le 85 incursioni di venerdì notte su infrastrutture e obbiettivi filo-iraniani in Irak e Siria Teheran si prepara a usare lo stesso metro con Joe Biden. Lo scenario è chiaro. Biden ha un disperato bisogno di tornare a imporre la capacità di deterrenza americana. Per farlo deve dimostrare di saper piegare la Repubblica Islamica costringendola a interrompere gli attacchi messi a segno dalle milizie sciite attive in Irak e Siria. Ma la Casa Bianca deve anche dimostrarsi capace di mitigare l’aggressività d’Israele a Gaza e imporre al suo governo la soluzione dei «due stati per due popoli» sul fronte palestinese. Per ottenerlo, dimostrando di essere ancora alla guida di una vera grande potenza, Biden ha tempi dannatamente stretti. Tempi in scadenza già a fine di giugno quando dovrà dedicare tutto se stesso alla nuova sfida con Donald Trump. Le indiscrezioni sui piani di battaglia avviati venerdì notte ne sono la dimostrazione. Secondo molte fonti la Casa Bianca pretende di chiudere la partita con le milizie filo-iraniane nel giro di una settimana, o poco più. Ed è convinta di riuscirci esibendo un enorme potenziale bellico. Un’esibizione iniziata venerdì notte quando per colpire obbiettivi siriani e iracheni sono stati fatti decollare dalle basi statunitense i bombardieri strategici B2. Bombardieri il cui uso sarebbe giustificato se l’obbiettivo fosse la distruzione dei siti nucleari del grande nemico iraniano, ma che rischiano di diventare eccessivi, sia per costo sia per efficacia, se nel mirino vi sono piccoli avamposti missilistici o basi di droni nel deserto. Come hanno dimostrato le guerre d’Afghanistan e Irak, e confermano le incursioni contro le milizie Houthi, la distruzione di simili obbiettivi non garantisce vittorie immediate, né, tantomeno, definitive. Dall’Afghanistan ai deserti del Medio Oriente l’unica arma veramente decisiva è il tempo. In Afghanistan era nelle mani dei talebani, in Medio Oriente la clessidra è nelle mani dell’Iran di Khamenei. Un Iran che – a differenza degli Usa – non deve misurarsi né con elezioni incerte, né con grandi nemici interni. E che – per assurdo – non deve neppure temere un intervento sul proprio territorio. Biden, infatti, ha già escluso esplicitamente operazioni rivolte a colpire il regime iraniano o le sue infrastrutture strategiche. Così facendo il presidente americano non ha abbozzato una strategia, ma ha consegnato al nemico i piani di un probabile fallimento. Da Bagdad a Damasco le milizie sciite sono pronte a replicare la stessa strategia adottata dopo il 2003 dagli insorti saddamisti o jihadisti. Continuando a punzecchiare i 2500 soldati americani presenti in Irak, e i 900 dispiegati nelle basi in Siria, costringeranno gli americani a prolungare e intensificare i bombardamenti. La strategia punta a imprigionarli in una ragnatela da cui sarà sempre più difficile sfilarsi. Soprattutto se i tempi sono quelli delle presidenziali americane. Ritrovarsi prigionieri di uno scontro con l’Iran combattuto tra Siria e Irak significa, però, fronteggiare il malcontento delle opinioni pubbliche arabe e musulmane. E questo equivale a non poter contare su degli alleati – come Arabia Saudita, Egitto e Giordania – indispensabili per abbozzare il progetto di «due stati per due popoli». Con il risultato di lasciar aperta la questione palestinese. Ovvero essere alla testa di una «grande potenza» inadeguata a risolvere il nocciolo del problema mediorientale.