Quando partì per l’esilio, Vittorio Emanuele aveva nove anni. Era un bambino spensierato con interessi per la meccanica e si divertiva a fabbricare, aiutato da un artigiano, modellini che mostrava orgoglioso al padre. Salito, con le sorelle e la governante, sulla vettura che lo avrebbe portato a Napoli da dove avrebbe lasciato l’Italia, non salutò nessuno e voltò la testa verso l’interno per non mostrare le lacrime. Il suo carattere mutò tant’è che, a detta di chi gli fu vicino, sembrò, da allora in poi, mettere da parte la giovanile spensieratezza e farsi pensoso e distratto. Il dolore e la consapevolezza di lasciare il territorio italiano dovettero, malgrado la giovanissime età, pesargli. La partenza dei Savoia, tutti, a seguito dell’esito del referendum istituzionale fu un trauma che, però, colpì tutta la famiglia, perché segnava una frattura tra l’Italia e la Dinastia.
I Savoia erano sempre stati legati alla penisola fin da quando, nei secoli XI e XII, erano titolari di un dominio feudale di origine transalpina. Avevano cominciato a operare per l’unità senza neppure proporselo quando, per difendere il proprio dominio, si erano trovati a fronteggiare francesi, spagnoli, austriaci. Già Emanuele Filiberto, «Testa di ferro», nipote di Carlo V e cugino di Francesco I, nella seconda metà del XVI secolo, considerava il ducato «bastione d’Italia» e aspirava al primato fra i principi della penisola. I suoi successori, fra rallentamenti e accelerazioni di marcia, si erano adoperati, una volta soddisfatte le aspirazioni a trasformare il ducato in regno, per far sì che il Re di Sardegna non si sentisse «straniero in nessuna parte d’Italia». C’era stata, in parole povere, una marcia di avvicinamento tra Savoia e Italia nella cornice dei rapporti e dei giochi di forza internazionali dell’età medievale e moderna. Poi, nell’Ottocento, all’epoca del risveglio delle nazionalità, si era registrato un altro fenomeno.
Gli italiani, sparsi in diversi staterelli, avevano guardato ai Savoia come a un punto di riferimento riponendovi fiducia e speranze per il raggiungimento dell’unità e dell’indipendenza della nazione. Lo dimostrano quelle stampe oleografiche, presenti per decenni in tante case d’ogni ceto sociale, che raffiguravano, in unità simbolica, quali artefici del Risorgimento, Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Mazzini e Cavour. Realizzata l’unità, Vittorio Emanuele II fu il primo Re d’Italia. Egli raccolse l’eredità di Carlo Alberto che aveva portato i Savoia e il Piemonte alla testa delle dinastie e dei regni della penisola aiutando il liberalismo a orientarsi verso la monarchia e questa a piegarsi verso di esso. Egli – operando in una situazione istituzionale nella quale il regime costituzionale si era trasformato in regime parlamentare – aveva cercato di sciogliere i nuclei residui di municipalismo e particolarismo, di rompere il legame stretto che nell’Italia meridionale univa i sudditi ai Borboni, a depotenziare e recuperare il neoguelfismo, a costruire insomma l’unificazione spirituale oltre che politica del paese. La letteratura e l’arte avevano contribuito, durante il suo regno e quello del suo successore Umberto I, a questo risultato. L’«Italia di marmo», quell’insieme di statue e monumenti eretti ovunque per celebrare il Risorgimento e i suoi protagonisti, ne furono la dimostrazione più concreta.
Poi Umberto, il sovrano che un repubblicano e socialista come Napoleone Colajanni avrebbe definito il «Re veramente galantuomo», cercò di realizzare quella che potrebbe essere chiamata la «nazionalizzazione» della monarchia: il suo viaggio nelle città del regno del 1878 e l’attività filantropica della regina Margherita furono finalizzati, proprio, a radicare e rafforzare il consenso popolare all’istituzione. Infine, dopo il regicidio di Monza, il nuovo secolo si aprì con l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III, il nonno del piccolo Vittorio Emanuele. Il suo lungo regno vide la Grande Guerra, che ne segnò la consacrazione in «Re soldato», poi l’avvento del fascismo, la dittatura, lo scoppio del secondo conflitto mondiale, infine la catastrofe. Durante il «ventennio» la monarchia ripiegò su una posizione difensiva malgrado certe improvvise e talora forti prese di posizione del Re di fronte ai continui tentativi di sbilanciare la «diarchia» a favore del fascismo. Era ormai troppo tardi quando il Re decise di liquidare il regime in concomitanza con la parallela congiura di alcuni gerarchi fascisti che portò alla storica seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943. L’immagine del Re – anche se non per sua esclusiva colpa – era ormai sbiadita se non addirittura compromessa. E l’abdicazione in favore di Umberto, il «Re di maggio» non fu sufficiente a recuperare il consenso e salvare l’istituzione. Forse le lacrime del piccolo Vittorio Emanuele, il giovane principe che non avrebbe mai regnato, quelle lacrime sgorganti spontaneamente dai suoi occhi erano il simbolo, plasticamente evidente, della conclusione di una fase di storia che aveva visto legate fra loro le sorti di una Dinastia e di un Paese.