È interessante che chi fa più morti, massacri, stupri, uccisione di bambini, riesca tuttora ad afferrare una chiave di potere senza confronto. Nelle ore in cui scriviamo, è Yehie Sinwar, dal fondo della sua tana a Khan Younis, soppesa il futuro del mondo usando una semplice leva: i 136 rapiti nelle sue mani. Mentre Ismail Haniyeh annuncia che la delegazione di Hamas desidera alcuni giorni in più per decidere, il capo militare (diciamo così) di Hamas sarebbe pronto per la soluzione di cui si parla, mentre Haniyeh, il capo «diplomatico» vuole un cessate il fuoco definitivo, non una tregua, che lasci Hamas padrone di restare il dittatore di Gaza.
Per quel che si sa su 136 ostaggi, di cui sembra una trentina non più in vita, 35 sarebbero liberati in cambio di un giorno di tregua per ciascuno o di più; 100-150 prigionieri palestinesi sarebbero scambiati con ognuno di loro (secondo il giornale libanese Al Akhbar); le fasi previste sarebbero tre o quattro, prima i civili, poi le soldatesse, i soldati, e infine i deceduti. Israele è stretta alla gola dal ricatto impossibile fra la vita dei suoi cari e combattere contro la minaccia che riguarda i suoi 10 milioni di abitanti. L’incertezza sul da farsi non ha a che fare con la destra cattiva che non vuole cedere e la sinistra buona pronta a tutto, come si scrive scriteriatamente. L’80 per cento del pubblico israeliano è contro l’idea di sospendere la più necessaria delle guerre, quella di sopravvivenza: ma le minacce di Ben Gvir di spaccare il governo in caso di cedimenti, sono da tutti, anche dal Likud, reputati stonati. Si cerca un equilibrio impossibile, perché dipende da Sinwar.
Su questo proscenio, ogni giorno di più, fa perno la grande avventura internazionale di un mondo in bilico sulla crisi mediorientale, che gli Stati Uniti vorrebbero contenere cercando una conclusione o almeno un rallentamento alla guerra di Israele. Arriva oggi in zona il Segretario di Stato Antony Blinken, verrà a Gerusalemme dopo essere stato in Arabia Saudita, Egitto, Qatar in questo ordine. Ciò avviene dopo che gli aerei da combattimento, i bombardieri B1 hanno colpito a dozzine (85 obiettivi) siti militari iracheni e siriani usati dall’Irgc (le Guardie rivoluzionarie iraniane) e dai loro «proxy» locali. È la risposta all’attacco a «Tower 22» di una settimana fa che ha fatto 3 morti americani e 40 feriti. Risposta tardiva, ma forte e molto meditata. Biden ha detto: «La nostra risposta è iniziata e avrà i tempi e i luoghi necessari», gli americani reagiscono con un intervento contenuto. Cioè Biden, consapevole che i ben 160 attacchi subiti dalle sue truppe in Medio Oriente, hanno a che fare con un conflitto largo, che ha il suo epicentro in Israele, ma dietro il quale si intravede l’odio dell’Iran contro il Grande Satana e quello verso il piccolo Satana, cerca una strada per trasformare il caos in una prospettiva positiva agli occhi della sua «costituency» democratica.
Dunque, evita di rispondere colpendo l’Iran, e invece cerca in questi giorni di portare Israele verso una tregua, senza forzare troppo. Blinken cerca di afferrare il toro per le corna della questione degli ostaggi, disegna coi sauditi un patto conveniente per tutti, spinge l’Egitto e il Qatar per l’accordo sui rapiti e cerca di indurre Israele a disegnare una soluzione in cui si veda la stella polare di «due stati per due popoli». Qui la strada si fa impervia, perché è difficile sognare uno stato palestinese oggi: sarebbe autocratico, corrotto, dominato dall’adesione all’ideologia di Hamas, incapace di fornire garanzie di educazione pacifica e di distacco dal terrorismo. Comunque questo dibattito verrà al momento giusto. Ora persino per gli Usa l’impossibile nodo degli ostaggi è il metro di misura.