Ho cercato inutilmente nel «Sinonimi e Contrari» Zanichelli il contrario di misoneista (che è chi ha in odio il nuovo). Progressista, riformatore, modernista non centrano il punto, il mio problema è un altro: in letteratura non sopporto il vecchio. Di fronte a un testo scritto prima del Novecento mi assale un blocco, se non una sensazione di repulsione. Per carità, mi guardo bene dal negare il valore letterario dei classici, non sono mica pazzo. Sono però affetto da questa sindrome, che, come si suol dire, in tedesco avrà una singola lunga parola che la definisce perfettamente, ma che in italiano non so come chiamare.
Va da sé che, a causa della mia sindrome senza nome, quando mi è stato proposto di recensire Mezza età (1766-1770), nono volume della Storia della mia vita (Lu ni editore, pagg. 368, euro 25) di Giacomo Casanova, io abbia vacillato. Storia della mia vita è l’opera più corposa e più nota del Casanova, oltre 3500 pagine distribuite in 10 tomi, scritta dal veneziano a Duchov, in Boemia, fra il 1790 e il 1797. Ma quando ho assaggiato questo volume IX, miracolo: mi sono sentito trascinare dentro le pagine con il medesimo piacere con cui sarei stato trascinato nella (ri)lettura di un Arbasino anni ’60.
Mi rendo conto: avvicinare questi due nomi sembra assurdo, ma ha un suo senso. Ci tornerò dopo.
Ecco intanto qualche precisazione. I dieci volumi della Storia della mia vita, pubblicati da Luni editrice, sono stati tradotti dall’edizione francese del 2013, uscita nella Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard. Un’edizione, questa francese (lingua in cui Casanova scrisse le sue memorie), che rendeva giustizia a un testo sin lì maltrattato da forzature e normalizzazioni, giacché di fatto pubblicava la versione originale di Casanova, tratta dal manoscritto acquisito dalla Bibliothèque Nationale de France nel 2010.
La traduzione di questo testo francese è stata l’ultima grande fatica di Serafino Balduzzi (con il contributo di Anna Pensante, dopo la recentissima scomparsa del traduttore). Balduzzi aveva capito che Casanova scriveva in francese ma (e qui cito l’editore) che il suo francese era “di laguna”, cioè quello di un veneziano che parlava il dialetto stretto del ’700, spesso quello dei bordelli e delle bische, riservando l’italiano per le comunicazioni ufficiali. Non solo: a questa consapevolezza tecnica, si è aggiunta, nella traduzione, la scelta di un tono basata sull’idea che Casanova scrivesse più per vincere la noia e la malinconia di un fine vita mesto e dimesso, vissuto in Boemia, lontano da casa, che non con lo scopo di veder pubblicate le proprie memorie, e dunque permettendosi una scrittura personale, diaristica, a volte un po’ negligente, certamente scanzonata, non di rado incurante delle volgarità e delle scabrosità. Con questa impostazione, Storia della mia vita tradotta da Serafino Balduzzi ci restituisce un Giacomo Casanova presente, tridimensionale, vivace e amichevole, che lega subito con il lettore, persino con un lettore prevenuto e con la sindrome senza nome, come me. Certo, conta anche il pezzo di vita raccontato in questo nono volume, che porta il titolo di Mezza età. È il periodo trai 40 e i 45 annidi Casanova.
Oggi sarebbe il racconto della vita di un post-giovane nel pieno delle proprie forze, ma qui siamo a fine Settecento, e dunque leggiamo le avventure di un quasi-anziano, ex tombeur de femmes, edonista e ribaldo, biscazziere e scherzador, alle prese con il primo declino fisico, sessuale, economico. Fa simpatia la consapevolezza di tutto ciò da parte del Casanova, che è impietoso con sé stesso, se ne guarda bene dal mascherarsi dietro a fanfaronate e, come massimo peccatuccio, si concede un po’ di autocommiserazione. Nel racconto di questo lustro casanoviano c’è letteralmente di tutto. Casanova sembrava conoscere l’intero mondo, e di quel mondo cita a ogni riga nomi, titoli, relazioni, albero genealogico, avventure recenti e passate. Ed ecco cosa me l’ha fatto associare ad Arbasino. Queste memorie sono (anche) un catalogo omnicomprensivo della contemporaneità di Casanova, che come in un Fratelli d’Italia fine Settecento elenca, cita, spiffera con gusto e perfidia, aneddoti, avventure, traversie di re, principesse, nobili di rango, gran borghesi, e, a scendere, traffichini, malfattori. Ovunque si trovasse (Vienna, Dresda, Lipsia… ) la sua fama di avventuriero colto e donnaiolo lo precedeva, e suscitava la curiosità, che portava all’ospitalità, e alla generosità, di nuovo di gran borghesi, nobili di rango eccetera. Ma portava anche all’assalto di truffatori e questuanti, soprattutto di sesso femminile. Ed è interessante, nel racconto di quegli anni, perché umanizza e avvicina il Casanova, perlomeno a un anziano facile alla commozione come me, la sua propensione a intenerirsi, e cedere e spendere, per correre in aiuto di belle (o ex belle) signore, senza pretendere in cambio le prestazioni che potremmo immaginare.
Anzi, queste prestazioni gli venivano spontaneamente offerte, o così ci racconta, in una forma di baratto data per scontata. Ma non di rado Casanova rifiutava. In parte perché il desiderio, e gli apparati preposti, non erano più quelli di un giovane, in parte, e più spesso, per il rischio. Se c’è una cosa ricorrente in questo volume di memorie, sono le malattie veneree. Vien da dire che Casanova ne incontrava una alla settimana. Una vita come gimkana tra colonie batteriche, la sua, una gonorrea da evitare di qua, una sifilide da cui fuggire di là, dispensate da donne troppo generose, e da affrontare con cure risibili a base di tossici sali di mercurio. Insieme alle malattie sessualmente trasmesse, a tormentare Casanova erano i soldi, quelli mandati da Venezia, pochi, quelli vinti al gioco, quelli che gli venivano confiscati o rubati.
Infine i ricordi: il duello con Branicky e l’evasione dai Piombi, che spesso in questo volume delle memorie fanno da argomento di conversazione, da aneddotica per intrattenere chi lo ospita e foraggia.
E che a me invece hanno ricordato che la sua vita avventurosa era ormai andata, e me l’hanno reso simpatico ancora di più.