La guerra dei chip: la sfida tra Cina e Usa per vincere la corsa allo sviluppo delle Ia

La guerra dei chip: la sfida tra Cina e Usa per vincere la corsa allo sviluppo delle Ia

Come è stata vinta la Seconda guerra mondiale? È stata vinta grazie alla predominanza nella capacità produttiva. Il fronte era condizionato in maniera totale dalla capacità dei vari contendenti di riversare verso le prime linee macchine e materiali. L’Asse venne inesorabilmente travolta dalla superiorità materiale degli Alleati, da un profluvio di carri armati, di aeroplani. La Guerra fredda invece è stata vinta, almeno parzialmente, dall’Occidente a partire dall’enorme peso economico necessario a mantenere un equilibrio nucleare tra potenze. Ma le guerre, calde o fredde del futuro, su che base si vinceranno? Secondo molti analisti a fare la differenza sarà la capacità di calcolo e di immagazzinamento dati, di cui l’intelligenza artificiale, di cui tanto si parla, è la punta dell’iceberg. Questa corsa al controllo dei dati, che poi vuol dire controllo del campo di battaglia nel finale, ma prima ancora controllo dell’economia e dell’informazione è iniziata già da decenni ma ora è arrivata ad un livello esponenziale.

Come spiega lo storico internazionale Chris Miller nel suo Chip War (Garzanti, pagg. 422, euro 22) non si tratta di uno scontro legato soltanto ai software e alla rete: esiste una parte hardware del conflitto che riguarda proprio il controllo e la vendita dei microchip che al momento sono la vera base dell’economia e del potenziale bellico mondiale.

Ci capita raramente di sentir parlare o di leggere articoli e libri incentrati sui chip. Eppure il mondo moderno è costruito su fondamenta di silicio.

Alla base di ogni elaborazione dati c’è la necessità di svariati milioni di 1 e di 0 del codice binario. Ogni pulsante del vostro smartphone, ogni email, foto o video di YouTube è codificato, in ultima analisi, in immense stringhe di codice binario. Ma questi numeri non esistono davvero. Sono l’espressione di correnti elettriche. Un chip è una griglia di milioni o miliardi di transistor, minuscoli interruttori elettrici che scattano per elaborare queste cifre, per ricordarle e per trasformare realtà sensibili come immagini, suoni e onde radio in flusso dati.

Ma chi e dove è in grado di fabbricare questi microscopici circuiti integrati? Al giorno d’oggi nessuno produce e miniaturizza i semiconduttori come Semiconductor Manufacturing Company di Taiwan. Per intenderci, i microprocessori A 14 di quest’azienda contengono ognuno 11,8 miliardi di transistor. Solo sessant’anni fa, giusto per dare l’idea, i transistor in un singolo microprocessore erano 4. Questo dà l’idea del salto di potenza di calcolo. E spiega perché lo status politico di Taiwan con le sue avanzatissime aziende di microprocessori sia una questione di enorme importanza. Senza quei processori, il mondo si spegnerebbe.

E quello di Taiwan non è un caso isolato. Le aziende che impattano davvero nella produzione dei microchip si contano sulle dita di una mano, del resto si tratta di scolpire nel silicio drogato (ovvero addizionato di specifiche sostanze) labirinti di circuiti che hanno forme grandi la metà di un coronavirus e cento volte più piccole di un mitocondrio.

Il cuore della progettazione di questi piccoli gioielli tecnologici è rimasto nella Silicon Valley ma la fabbricazione avviene a Taiwan. E possono essere incisi solo usando dei macchinari ad altissima precisione. Questi macchinari vengono prodotti principalmente da cinque aziende, una olandese, una giapponese e tre californiane. Si tratta di una filiera delicatissima che può essere facilmente compromessa.

E che spiega con precisione tutta la tensione geopolitica che si muove attorno a Taiwan. Taiwan è la patria del chip. La Cina sta impiegando le sue menti migliori e miliardi di dollari per sviluppare una tecnologia indipendente per i semiconduttori, nel tentativo di liberarsi della stretta statunitense.

Il risultato sono tensioni che costantemente montano e poi scemano. Nell’agosto 2020 la tensione tra la Marina militare Usa e quella cinese nello Stretto di Formosa era decisamente alta, con le navi statunitensi impegnate a rivendicare il fatto che quelle attorno a Taiwan sono acque internazionali. Ma la vera linea di tensione tra le due superpotenze non aveva molto a che fare con il mare. Il Dipartimento per il Commercio degli Stati Uniti aveva appena ritoccato un regolamento chiamato «Entity List», che limitava l’esportazione di tecnologia americana. In precedenza, «Entity List» era stato usato principalmente per prevenire la vendita di apparati militari, quali componenti di missili o materiali nucleari. Ma in quel caso il governo americano aveva dato una forte stretta alle norme relative ai chip per computer.

Il bersaglio era Huawei, il gigante cinese della tecnologia che vende smartphone, attrezzatura per telecomunicazioni, servizi di cloud computing et similia.

Gli Stati Uniti temevano che i prodotti Huawei avessero ormai un prezzo così attraente – grazie anche ai sussidi del governo cinese – che in breve sarebbero diventati la spina dorsale delle reti di telecomunicazione di ultima generazione. Il predominio americano sulle infrastrutture tecnologiche mondiali ne sarebbe uscito indebolito e il peso geopolitico della Cina sarebbe cresciuto. Per combattere questa minaccia, gli Stati Uniti impedirono a Huawei di comprare chip per computer avanzati prodotti con tecnologia americana. In poco tempo l’espansione globale dell’azienda si arrestò.

Intere linee di prodotto divennero impossibili da realizzare. I profitti crollarono. Un’azienda di dimensioni colossali si trovò di fronte al soffocamento tecnologico. Huawei scoprì che, come ogni altra azienda cinese, era fatalmente dipendente dall’estero.

Questa tensione torna ciclicamente a rinnovarsi ed è diventata ancora più rilevante quando è iniziato a diventare chiaro il potenziale dell’intelligenza artificiale, sia in campo civile che militare. Una delle mosse geostrategiche più rilevanti dell’amministrazione Biden è stato il cosiddetto «Chips and Science Act» dell’agosto 2022. Un provvedimento con cui Washington ha imposto severi controlli all’esportazione di singole tecnologie particolarmente avanzate. Tra queste anche i nanochip da cui dipendono i processori logici che fanno da substrato tecnologico allo sviluppo delle Ia.

Quindi il «Chips Act» è una muraglia anticinese tecnologica tesa a bloccare le ambizioni cinesi proprio nel campo delle intelligenze artificiali. Del resto Ia significa molto di più che software intelligenti per creare immagini o testi ma anche sistemi informatici capaci di pensiero strategico. Il «Chips Act» dunque rientra perfettamente in una nuova politica che ha preso atto che la globalizzazione può portare anche a grandi squilibri nell’ambito geopolitico e militare. E si corre ai ripari.

Guardando le cose invece con la prospettiva di Pechino, dove il ritorno al «sogno imperiale» ha ormai mandato in pensione il piccolo cabotaggio industrial-agricolo da piano quinquennale comunista, l’intelligenza artificiale è considerata, senza nessun tipo di remora, come uno straordinario strumento per tenere insieme due obiettivi, profondamente connessi e rimasti invariati dall’epoca di Sun Tzu: il controllo sull’interno del Paese che ormai passa dal controllo di internet e la politica di potenza al suo esterno, che passa dalla capacità di calcolo e di previsione. L’intelligenza artificiale è considerata dai cinesi come una specie di «super-mandarino» imperiale del XXI secolo. Un acceleratore di processi, uno strumento di super pianificazione che viene già utilizzato per tutto, dalla produzione di pareri giuridici sino alla pianificazione agricola.

Andremo incontro ad una guerra tecnologica vera e propria? In questo momento c’è chi la guerra tecnologica l’ha già persa, anche se continua a tenere sul terreno della guerra tradizionale. Nell’aggressione all’Ucraina uno dei primi comparti ad andare in tilt nella macchina militare russa è stato proprio quello della componentistica elettronica. La Russia, lasciata a secco dall’Occidente, per far funzionare i suoi carri armati si è messa a smontare i microchip dalle lavatrici. Dopo si è messa a fare la spesa sul mercato internazionale, a partire dalla Cina. Il dato relativo ai chip cinesi è balzato da duecento a oltre cinquecento milioni durante il 2022 e alcune indagini hanno dimostrato gli sforzi di Mosca per acquistare componenti statunitensi ed europei aggirando le sanzioni attraverso la mediazione di società sparse in tutto il mondo. Una strategia efficace per certi versi ma che dimostra che Mosca su questo versante ormai è in totale ritardo.

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