Ritorno di Riccardo Muti alla Scala festeggiato con entusiasmo speciale. Secondo certi gazzettieri che suonano le trombette quando non ce ne sarebbe bisogno, era un successo prevedibile. Ma bastava ascoltare quanto emerso in maniera prepotente dopo le ammirevoli esecuzioni della suite di Richard Strauss, Aus Italien e della potente Quinta sinfonia di Sergej Prokof’ev. Muti aveva pensato come bis (richiesti!) di omaggiare il centenario di Puccini (l’Intermezzo di Manon Lescaut, l’opera che, diretta da Toscanini, diede all’Autore una delle più belle gioie della sua vita e una delle poche godute alla Scala) e Verdi (l’ouverture di Giovanna d’Arco) – «un’opera che non ho mai diretto alla Scala» (chi abbia orecchie per intendere, intenda). Gli insoliti coloriti dei tremoli in crescendo che descrivono allo stesso tempo lo sconvolgimento degli elementi e la tempesta dell’anima della Pulzella d’Orléans avevano un timbro espressivo da tempo svanito nell’infelice acustica del teatro milanese. Il trionfale applauso del pubblico rispondeva non solo alla forza pugnace di Verdi, ma faceva lievitare la memoria: gli smemorati per progetto o per convenienza erano serviti. Chi voleva, sulle ali dell’empito verdiano e della potente vena melodico-sinfonica pucciniana, ritrovava la propria galleria di predilezioni: le opere di Gluck e la Trilogia Mozart/Da Ponte, il non dimenticato ‘700 napoletano (Paisiello e Pergolesi), le Messe e Lodoïska di Cherubini, il solitario genio pre-romantico di Spontini, le battaglie contro malcostumi e anacronistici vedovami (Traviata), il paradigmatico suggello di Falstaff, il calvario moderno dei Dialoghi delle Carmelitane di Poulenc.