Nel giorno in cui si è spento Vittorio Emanuele, figlio dell’ultimo re d’Italia Umberto II, si è tornati a parlare della monarchia nel nostro Paese e di casa Savoia. La dinastia che aveva unificato il Belpaese dopo i disastri della seconda guerra mondiale e soprattutto la fuga da Roma del re (ufficialmente per salvare la corona, concretamente lasciando le forze armate allo sbando dopo l’8 settembre 1943), pagò il conto con la sconfitta nel referendum, con gli italiani che, per la prima volta con il suffragio universale (e il voto anche alle donne), scelsero di sbarazzarsi del re e di optare per la repubblica.
Il 2 e 3 giugno 1946 votò l’89,08% degli aventi diritto, in tutto 28.005.449 italiani. Scelsero la repubblica 12.717.923 cittadini, mentre per la monarchia optarono 10.719.284. I risultati furono proclamati dalla Corte di Cassazione il 10 giugno 1946. Il giorno tutti i quotidiani dell’epoca diedero la notizia a caratteri cubitali in prima pagina.
Furono momenti di grande tensione, perché non mancarono le accuse di brogli e il rischio che il re, se non avesse riconosciuto il risultato, potesse scatenare una guerra civile. Umberto II, invece, pur polemizzando duramente, preferì uscire di scena senza neanche attendere l’esito dei ricorsi presentati dai monarchici: il 13 giugno 1946 prese la via del Portogallo, dove andò in esilio a Cascais. Alcuni scontri ci furono, specie a Napoli, ma di dimensioni contenute e non tali da destabilizzare le neonate istituzioni repubblicane.
La carica di capo provvisorio dello Stato fu assunta dal presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, la notte tra il 12 e il 13 giugno. Il 28 giugno l’Assemblea Costituente, eletta con il voto del 2 giugno contestualmente al referendum, elesse il primo capo provvisorio dello Stato, nella figura di Enrico De Nicola.
Come si arrivò al referendum del 1946
A guerra ancora in corso il 25 giugno 1944 fu emanato un decreto luototeneziale che stabilì che, al termine del conflitto, sarebbe stata indetta una consultazione popolare per scegliere la forma dello Stato e per eleggere un organismo chiamato a scrivere la nuova casta costituzionale. Fu il frutto dell’accordo politico fra i partiti che avevano combattuto per dare la spallata finale al fascismo, combattendo al fianco degli Alleati. Fu il figlio di Vittorio Emanuele III, principe Umberto, a stabilire nel marzo 1946 che referendum e elezioni per la Costituente si sarebbero tenuti contestulamente.
Ma com’erano schierate le forze politiche? Il fronte repubblicano era così composto: Partito comunista italiano, Partito socialista italiano, Partito repubblicano italiano e Partito d’Azione. La Democrazia cristiana scelse di optare per la Repubblica. L’unico partito del CLN a esprimersi per la monarchia fu il Partito liberale.
Un mese prima del voto Vittorio Emanuele III abdicò, lasciando la corona al figlio, Umberto, già luogotenente, che regnò l’Italia per poco più di un mese (da qui fu chiamato il “re di maggio“). Il fronte monarchico sperava che la mossa potesse salvare la corona, facendo salire sul trono una figura che non aveva avuto alcuna collaborazione con il regime fascista. Ma la scelta probabilmente fu troppo tardiva. Ormai non c’era più nulla da fare e il destino della monarchia era segnato.
Con il referendum l’Italia risultò spaccata in due. Nel Nord la Repubblica vinse con il 66,2%, nel Sud invece a prevalere fu la monarchia con il 63,8% dei voti.
L’uscita di scena con polemica di Umberto II
Il 13 giugno 1946 Umberto II contestò la vittoria della repubblica perché, a suo dire, in base al decreto di indizione del referendum la parte vincitrice (monarchia o repubblica) avrebbe dovuto ottenere la maggioranza degli elettori votanti, tenendo conto, quindi, anche delle schede bianche e nulle. Per vincere, quindi, ciascuna delle parti avrebbe dovuto raggiungere la metà più uno dei voti, conteggiando tutte le schede (comprese quelle nulle e bianche. La Corte di Cassazione respinse questa tesi, che comunque si sarebbe rivelata ininfluente, tenuto conto che lo scarto fu di 2.000.139 voti, e che schede bianche e nulle furono 1.509.671.
“Italiani! Nell’assumere la Luogotenenza Generale del Regno prima e la Corona poi, io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo, liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello Stato. E uguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corte Suprema di Cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione dei risultati definitivi del referendum. Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali fatta dalla Corte Suprema; di fronte alla sua riserva di pronunciare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risolta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancora ieri, ho ripetuto che era mio diritto e dovere di Re attendere che la Corte di Cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta. Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza.
Italiani! Mentre il Paese, da poco uscito da una tragica guerra, vede le sue frontiere minacciate e la sua stessa unità in pericolo, io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me perché altro dolore e altre lacrime siano risparmiate al popolo che ha già tanto sofferto. Confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il Governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori dai confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto.
A tutti coloro che ancora conservano fedeltà alla monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo l’esortazione a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Con animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia terra. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d’Italia e il mio saluto a tutti gli Italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli. Viva l’Italia!”
Alle parole durissime del sovrano rispose Alcide De Gasperi, che definì il proclama del re “un documento penoso, impostato su basi false ed artificiose”.
Il tentativo in extremis di Croce di salvare la corona
Il filosofo liberale Benedetto Croce insieme a Luigi Einaudi propose che per salvare la corona fosse necessaria una doppia abdicazione, sia di Vittorio Emanuele III che di suo figlio, Umberto II. Al trono sarebbe andato un bambino, Vittorio Emanuele IV, con un inevitabile problema di reggenza finché non fosse divenuto adulto. Si pensava che, per quel ruolo, la persona adatta potesse essere sua madre, Maria Josè, che Croce definiva “la più valida delle reggenti”, soprattutto per la sua acclarata distanza dal fascismo. Fu lo stesso governo Badoglio, capo del governo dopo la destituzione di Mussolini, a chiedere al re di valutare questa opzione, facendogli intendere che il CLN propendeva per Vittorio Emanuele. Badoglio, però, avrebbe tenuto per sé la reggenza. Ma il re non volle saperne e si limitò a concedere al figlio la luogotenenza, lasciandogli la corona tardi, troppo tardi, solo il 9 maggio del 1946, e senza accettare la proposta della doppia abdicazione ma lasciando il trono al figlio.