Sono almeno 3 milioni i lavoratori italiani che godono di piani di welfare aziendale, cioè di forme di benefici aggiuntivi alla normale retribuzione. Un dato stimato per difetto, che nasce dal numero di 19 contratti collettivi di lavoro che hanno normato alcune forme di integrazione nei servizi sanitari, assistenziali e/o sotto forma di voucher (dai buoni pasto ai buoni benzina, per intenderci).
Se dovessimo fare una somma di tutte le aziende che utilizzano i servizi degli oltre 100 provider che in Italia offrono servizi connessi ai piani di welfare aziendale, il numero sarebbe certamente superiore: almeno il triplo di quei tre milioni che ricevono benefit attraverso gli accordi contrattuali nazionali. Più o meno due lavoratori su tre godono di qualche forma di welfare aziendale.
Da quest’anno la loro dote aggiuntiva, rispetto alla retribuzione, potrebbe arrivare a 2.000 euro in più (se si tratta di lavoratori/lavoratrici) con uno o più figli a carico. La metà, 1.000 euro, per chi non ha figli. Intendiamoci, si tratta di una cifra non “dovuta”, ma affidata alla decisione del datore di lavoro e alla eventuale contrattazione aziendale. Ma fino a quella cifra, cioè 2.000 o 1.000 euro all’anno, l’azienda può ottenere un sensibile vantaggio fiscale. I cosiddetti fringe benefits restano esclusi dall’imponibile fiscale, quindi pesano meno all’azienda e meno al lavoratore.
Dalle bollette al mutuo
Tra le novità previste dall’ultima Legge di Bilancio non ci sono solo i limiti massimi, ma riguardano anche le tipologie di beni e servizi ammessi alla deducibilità fiscale: nell’elenco delle somme che i datori di lavoro potranno riconoscere ai propri dipendenti restano quelle erogate per il rimborso delle bollette di luce, acqua e gas, ed entrano quelle a copertura delle spese d’affitto e degli interessi sul mutuo relativo all’abitazione principale. È appena il caso di ricordare che fino a due anni fa la soglia della defiscalizzazione era ferma a poco più di 258 euro all’anno.
Una bella differenza, quindi una sostanziosa opportunità di integrare di fatto il reddito dei dipendenti, attraverso servizi e prestazioni di welfare che vanno a sussidiare le opportunità dei bonus pubblici. Resta un problema di conoscenza delle iniziative. Secondo l’ultimo rapporto Censis-Eudaimon (a fine febbraio è atteso il nuovo aggiornamento) i dispositivi e gli strumenti di welfare aziendale sono ben conosciuti solo dal 19,8% degli occupati, a grandi linee dal 45,1%, mentre non ne ha conoscenza il 35,1%. Un problema non da poco, per poter consentire ai lavoratori di cogliere qualche opportunità di vantaggio per sé e per le proprie famiglie: spesso si tratta di prestazioni di sanità integrative che si estendono a tutti i componenti del nucleo familiare.
Conciliare vita e lavoro
Riguardo alle tipologie di servizi e prestazioni, emerge che il 79,4% dei lavoratori vorrebbe supporto personalizzato, il 79,2% migliori e maggiori opportunità per conciliare vita familiare e lavoro, il 79,1% integrazioni di reddito per spese alimentari, il 78% supporto per risolvere problemi burocratici nel rapporto con la pubblica amministrazione, nelle dichiarazioni di reddito ecc., il 68,1% consulenza o supporto psicologico per affrontare le difficoltà quotidiane. Se le integrazioni di reddito sono oggi apprezzate dai lavoratori in difficoltà di fronte all’inflazione, è però forte la domanda di supporti utili per una più alta qualità della vita.
Il welfare aziendale come insieme composito di dispositivi di integrazione al reddito ed ai consumi e di soluzioni di welfare propriamente detto, nei prossimi anni sarà sempre più sfidato sul fronte della ri-motivazione al lavoro e della capacità di migliorare la qualità della vita di chi lavora. Infatti, nell’attuale mercato del lavoro fatto di eccesso di domanda sull’offerta e di allentamento dell’investimento soggettivo nel lavoro, il welfare aziendale diventa strategico per le aziende per potenziare la propria capacità di trattenere e attirare lavoratori.