Roma è lì con il suo ventre aperto, il cerchio magico e vagamente ipnotico del Mausoleo di Augusto sotto lo sguardo, accanto l’Ara Pacis disegnata a inizio millennio da Richard Meier. Dal quinto piano del Bulgari hotel, aperto qualche mese fa dopo un restauro kolossal di un edificio metafisico come tutta quella strana macchina del tempo che è piazza Augusto Imperatore, in cui le varie Rome dialogano fittamente, lo sguardo si allunga sul Tevere che scorre languido lì accanto. Qui, sul rooftop, si trova il ristorante che conta sulla consulenza del grande Niko Romito, genio che vanta tre stelle al Reale di Castel di Sangro, in Abruzzo. Un luogo di grande eleganza, che sorprendentemente affascina anche i romani, che lo affollano contendendosi i tavoli con la clientela straniera formata per lo più dagli ospiti dell’hotel. Merito di una cucina che in fondo è pensata, come i tutti i Bulgari del mondo, per rappresentare una credibile e ben fatta “retrospettiva” sulla italianità in tavola, e per ciò apparentemente destinata più ai forestieri che agli italiani. Un merito in più per Niko e per Emilio Di Cristo, il giovane chef che guida giorno per giorno la cucina.
Qualche mese fa, era estate, ero stato già al ristorante romano del Bulgari, ero in terrazza, complice la bella stagione, e avevo notato, come altri colleghi, qualche sporcatura soprattutto nel servizio, e l’avevo attribuita a un comprensibile rodaggio di una struttura piuttosto impegnativa forse tradita dell’eccessivo hype. Ora, diversi mesi dopo, tutto sembra essere stato messo a punto, il servizio, guidato dalla bravissima Elena Livada, che arriva da Stresa, e apporta una competenza aggraziata davvero piacevole. Così come il sommelier Fabrizio Gismondi racconta le proposte enologiche senza appesantire lo storytelling come troppo spesso accade.
La cucina non è strettamente di pensiero, né vuole esserlo. Ingentilisce e mette in gingheri piatti e ispirazioni della tradizione italiana, puntando su sapori netti e dalla silhouette definita. L’intento visibile – che poi appartiene alla filosofia romitiana di “industrializzare” tecniche e filosofie – è quello di codificare la grande cucina italiana rendendola esportabile in modo credibile e autentica e perciò godibile anche dagli italiani stessi. Sono partito da un antipasto all’italiana, otto piattini dapprima freddi e poi caldi tra i quali un magnifico Vitello tonnato. Poi dei Ravioli di patate con salsa di polpo alla luciana di assoluta mediterraneità e dei Tubettoni con cavolgiore e Parmigiano Reggiano che giocano alla cacio e pepe e forse avrebbero solo bisogno di un elemento più legante. La vera sospresa però è stata una Cotoletta alla milanese all’osso di grande qualità e perfettamente fritta. Ne ho mangiate poche di così buone anche nel capoluogo lombardo, dove vivo: miracolo a Roma. La presentazione è lineare, anche grazie al fatto che i vari contorni (tra i quali dei notevoli Carciofi arrosto al rosmarino) sono serviti a parte evitando di pasticciare. Il dolce è un vellutato Tiramisù servito in una ciotola tonda. Il menu degustazione, studiato per la condivisione, costa 140 euro (200 con l’abbinamento dei vini). La domenica anche un grandioso brunch a 110.