«Ma te lo ricordi quello della quinta B? Non ci credo, guarda come è diventato adesso?». Eravamo ingenui 20 anni fa. Arrivavamo dal mondo arcaico dei messaggini col T9 e delle prime chat, quelle in cui chiedere «Da dove dgt?» era già un azzardo mica da ridere. E di colpo Facebook ci concedeva di guardare attraverso il buco della serratura: che spasso ripescare i compagni del liceo, scoprire amici in comune con il collega appena arrivato, zummare la foto della moglie del fidanzatino dei tempi.
Era una bacheca condivisa, una vetrina. «È come entrare in un bar e iniziare a parlare con amici e amici degli amici» dicevamo per spiegare cosa fosse questo Faccialibro a chi (reticente o lungimirante?) non ci lasciava finire la frase e cominciava: «No, no, io non scrivo il mio nome lì dentro».
Nell’euforia del momento ci siamo raccontati. O meglio, abbiamo raccontato la nostra vita come la volevamo far apparire. E c’è stato un periodo di Eden, in cui sembrava che tutti apparecchiassimo la tavola della colazione come nella famiglia del Mulino Bianco, mangiassimo solo sushi e facessimo vacanze stratosferiche con gente strafighissima anche se magari eravamo a Viserbella Marittima con le amiche della zia. I bambini? Solo su fasciatoi con accessori in perfetta palette, dal bianco al rosa cipria. Il selfie con l’amica? Solo con il mojito in mano e la bocca a culo-di-gallina: «Le serate, quelle belle» nel post.
Quando abbiamo perso il controllo? Quando siamo passati dal «Alberto di Natale fatto!» postato al 10 novembre all’ostentazione più eccessiva? E soprattutto, perchè abbiamo accettato di banalizzare così ogni cosa?
Peggio delle rane bollite di Chomsky, non ci siamo accorti che giorno dopo giorno perdevamo un pezzo di noi (pensando di guadagnarlo). A ripercorrere i profili, ognuno di noi ha una storia di 20 anni in bacheca, ha condiviso cambi di lavoro, casa, marito (perfino di armadio), ha litigato sulle mascherine, ha sostenuto battaglie politiche, ha spettegolato, ha amato e odiato, si è visto hackerare il profilo. E non si è tirato indietro nemmeno dopo lo scandalo del 2018 sul furto di dati. Spia e sarai spiato è stato il patto implicito. Piano piano abbiamo accettato di distruggere la nostra privacy. E abbiamo fatto da cavie per la creazione di social più sfrontati e pericolosi. «Avete le mani sporche di sangue» ha detto un senatore al Congresso Usa rivolgendosi agli ad di Meta, X, Snap, TikTok e Discord, accusati, alla stregua di un processo pubblico, di distruggere vite umane e di esporre i minori a qualcosa che non sanno gestire.
Ora che i nuovi social sono più spinti, più finti, più vuoti, Facebook è rimasto in mano ai brontosauri nostalgici, quelli che alla prima iscrizione avevano tra i 20 e i 30 anni. Ha conquistato anche categorie che mai avresti detto all’inizio: nonni, preti, professori in pensione. Fanno a meno delle challenge loro. E anche dei filtri magici correggi tutto. Postano ancora foto di cani e «volantini». Vanno un po’ più lenti degli altri. Ma i boomer funzionano, eccome, e continuano a fare la fortuna di Marc Zuckerberg: l’attività pubblicitaria di Meta continua a girare a pieno ritmo e il gruppo Facebook paga il suo primo dividendo. I ricavi sono aumentati di un trimestre su base annua raggiungendo i 40,1 miliardi di dollari nell’ultimo trimestre. Il profitto finale è passato da 4,6 miliardi di dollari di un anno fa a 14 miliardi di dollari. Capito il potere dei tardoni del web?
«La nostra comunità e il nostro business continuano a crescere» ha affermato Mark Zuckerberg, fondatore e amministratore delegato di Meta. Ma stiamo bene attenti: l’era dei post da 150 caratteri, del like e del «chiedi l’amicizia a» è comunque al suo tramonto. Meta, dice il suo fondatore, «ha fatto molti progressi nell’intelligenza artificiale e del metaverso» e continua a investire nello sviluppo di mondi virtuali.
I social in 3D spazzeranno via le bacheche infinite da scrollare verso l’alto. E forse a breve sarà davvero «come incontrarsi in un bar. Ma «quello della quinta B» sarà un avatar.