Il conflitto regionale innescato dall’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre scorso, sta generando un piccolo terremoto politico nell’amministrazione statunitense. La Casa Bianca sta infatti riconsiderando le sue priorità militari in Medio Oriente, e con esse la sua presenza nella regione, con la decisione di abbandonare l’Iraq e, possibilmente, di ritirarsi dalla Siria.
Gli Stati Uniti e l’Iraq sono infatti pronti ad avviare colloqui sulla fine della coalizione militare internazionale guidata da Washington presente nel Paese e su come sostituirla con relazioni bilaterali. Si prevede che i colloqui dureranno diversi mesi, se non di più, pertanto non è in arrivo nessun ritiro imminente delle truppe statunitensi, che ammontano a circa 2500 soldati che forniscono consulenza e assistenza alle forze locali per prevenire una rinascita dello Stato islamico. Le forze della coalizione, in primis il contingente statunitense, vengono bersagliate dai proxy di Teheran presenti in Iraq da tempo: l’Iran cerca così di aumentare la sua influenza nella regione che va dai suoi confini sino al Mediterraneo passando anche per la Siria e il Libano, senza disdegnare il sostegno agli Houthi yemeniti.
Il disimpegno statunitense da alcune aree di crisi mediorientali potrebbe coinvolgere anche la Siria: Foreign Policy afferma che sebbene non sia stata presa alcuna decisione definitiva in merito, quattro fonti all’interno dei dipartimenti di Stato e Difesa hanno affermato che la Casa Bianca non è più interessata a sostenere una missione che percepisce come non necessaria e che sono attualmente in corso attive discussioni interne per determinare come e quando potrà avvenire un ritiro.
Gli Stati Uniti abbandonano il Medio Oriente?
Si delinea quindi un effettivo abbandono degli Stati Uniti da alcuni settori del teatro mediorientale? È probabile che il numero delle truppe americane in Iraq rimanga lo stesso dopo aver concluso accordi bilaterali, ma la mossa viene letta, politicamente, come un tentativo di aiutare il primo ministro iracheno sul fronte interno, ovvero mettendolo in grado di poter contrastare al meglio l’opposizione, anche armata, sobillata da Teheran.
La situazione nella vicina Siria è più complessa. Con circa 900 soldati schierati sul campo, gli Stati Uniti stanno svolgendo un ruolo determinante nel contenere e indebolire la persistente insurrezione dello Stato islamico nel nord-est della Siria, lavorando a fianco dei loro partner locali, le Forze Democratiche Siriane (Sdf) e in modo parallelo al contingente russo nonché alle milizie curde e alle forze dell’esercito di Assad. Proviamo quindi a supporre dei possibili scenari futuri, e a cercare di stabilirne la verosimiglianza.
I tre scenari
Un abbandono tout court, ovvero un ritiro totale delle forze statunitensi da Iraq e Siria, è lo scenario più improbabile: come già detto gli Usa stanno cercando accordi bilaterali con l’Iraq per continuare la missione di formazione delle forze di sicurezza locali, che permetterà a Washington di avere sempre una presenza nel Paese con basi e infrastrutture controllate direttamente. La Casa Bianca non può permettersi di lasciare l’Iraq in un momento storico in cui la presenza iraniana sul territorio incide nei rapporti di forza della politica interna del Paese. Guardando alla Siria un ritiro completo equivarrebbe a un disastro mediatico paragonabile solo alla fuga dall’Afghanistan, e ridarebbe vita non solo allo Stato islamico, ma alla propaganda del Cremlino che avrebbe modo di innestarsi più incisivamente in quel vuoto lasciato dagli Stati Uniti.
Un riassetto della presenza statunitense è invece l’opzione più probabile: in Iraq il numero degli uomini del contingente Usa resterà pressoché invariato e molto probabilmente se in Siria verrà ridotto, è plausibile che accada quanto avvenuto durante l’amministrazione Trump, ovvero semplicemente una ridistribuzione delle truppe prelevate dalla Siria nell’intero teatro mediorientale. Se così non fosse, il Pentagono dovrebbe cambiare i propri piani andando ad aumentare la propria presenza aeronavale nei mari mediorientali, e in questo particolare momento storico la presenza della U.S. Navy è più preziosa nel Pacifico Occidentale per fungere da deterrente nei confronti della Cina e di una Corea del Nord caratterizzata da rinnovati toni diplomatici aggressivi al netto della necessità statunitense di mantenere aperte le vitali linee di navigazione, ora messe sotto attacco nel Mar Rosso dai ribelli Houthi.
Sempre per quest’ultimo motivo, ovvero correlato alla priorità dello scacchiere indo-pacifico rispetto a quello mediorientale (o europeo), difficilmente la presenza statunitense aumenterà in quella regione. Inoltre il conflitto con Hamas, in cui sono intervenuti gli Houthi, rappresenta un punto importante sul fronte interno Usa in prossimità delle elezioni presidenziali, considerando che in campagna elettorale un aumento delle truppe all’estero non ha mai portato buoni frutti a nessun candidato.