L’economia russa scalda i motori in vista delle elezioni (dall’esito scontato) del prossimo marzo: non a caso il Fondo Monetario Internazionale ha alzato le sue previsioni per la crescita economica russa al 2,6% rispetto a uno stimato 1,1%, in precedenza.
We project that growth in emerging market and developing economies holds steady at 4.1% in 2024 and rises to 4.2% in 2025. This is a slight upgrade from our forecast last October and reflects upgrades for several regions. Read more here: https://t.co/mOl8pcUQrc pic.twitter.com/B4iXG3diFd
— IMF Africa (@IMFAfrica) January 30, 2024
La “Fortezza Russia” sta dando i suoi effetti?
Mosca starebbe, dunque, registrando risultati nettamente migliori rispetto alle previsioni, nonostante le sanzioni imposte alla Russia nel 2022 in seguito all’invasione dell’Ucraina. Dal Cremlino la scelta è quasi keynesiana: spendere, per i russi e per la guerra, portando il Paese a seguire e inseguire il trend delle altre economie emergenti, che si prevede cresceranno in media del 4,1% nel 2024. Per Mosca si tratta di più che di un raddoppio previsto dal Fondo nell’ottobre scorso. Si tratta della materializzazione di ciò che ha sempre definito come “Fortezza Russia“, ovvero un piano economico e politico a prova di sanzioni e boicottaggi: ed è esattamente quello che è accaduto, mentre in Occidente si scatenava la caccia all’oligarca e ai relativi yacht. Un’operazione che è passata attraverso l’accumulo di riserve valutarie estere, la riduzione del debito e lo sviluppo di reti alternative a quelle occidentali, sistema SWIFT in primis.
L’industria di guerra foraggia la crescita russa
Quanto basta a far emergere ulteriori interrogativi sulla reale efficacia delle sanzioni: negli ultimi due anni i Paesi occidentali hanno bloccato svariati settori dell’economia russa: industria, finanza, beni a duplice uso, beni di lusso e trasporti, ma nonostante questo, il “surriscaldamento” che più di qualcuno-la Difesa britannica ad esempio- aveva previsto a novembre, a causa dell’aumento della spesa militare, del mercato del lavoro in crisi e della concomitante inflazione galoppante, non c’è stato. L’aumento della spesa per forze armate e per foraggiare l'”operazione speciale” ora sta, invece, alimentando la crescita russa.
Dal canto suo, Vladimir Putin gongola di fronte ai risultati a sorpresa, annunciando che nel 2024 la crescita del PIL potrebbe superare il 3,5% citato dagli economisti russi un anno fa. Questo a causa di un previsto aumento della domanda interna di consumo e investimenti, oltre che investimenti pubblici da capogiro in settori come agricoltura, turismo, trasporti ed edilizia. Il meccanismo “virtuoso” russo sarebbe scatenato dalla stabilità dei prezzi delle materia prime che contribuiscono, a loro volta, a sostenere i ricavi delle esportazioni legate ai combustibili fossili.
Perché la sanzioni non stanno funzionando
Secondo autorevoli economisti, le sanzioni alla Russia sono affette dal medesimo peccato originale del diritto internazionale: per valere, devono essere riconosciute da tutti. Come nel caso del Sudafrica durante l’apartheid. Le sanzioni, dunque, imposte da una porzioncina di mondo finiscono spesso per essere inefficaci se non controproducenti, abbattendosi prevalentemente sulla popolazione civile. In un mondo così fatto, dove i BRICS sono visti sempre più dalle nazioni emergenti come il faro luminoso in grado di abbattere secoli di dipendenza, la sperata partecipazione globale alle sanzione economiche per chi viola le regole è un’utopia. Ce lo ha insegnato bene l’Iran, che ha seguitato a contrabbandare petrolio.
Mosca ha seguito l’esempio: costi di spedizione gonfiati e flotta “ombra”. Le stime andrebbero da un minimo di 100 a un massimo di 600 navi (ovvero il 10% almeno di tutte le navi cisterna esistenti): il range comprenderebbe sia le vecchie imbarcazioni che la flotta occulta gestita da intermediari di Mosca, Iran e Venezuela in cima, già colpiti da sanzioni occidentali. E i numeri continuerebbero a salire. Un complesso intreccio che passa anche da società di comodo i cui uffici sono a Dubai o Hong Kong. Un complesso circolo, dunque, quello delle sanzioni occidentali che, seppur alternativo alla guerra aperta, rischia nel lungo periodo di scadere nell’effetto boomerang, minando la credibilità del dollaro, come dimostrano gli ambiziosi piani di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.