“Il fine vita? Scelta individuale. Ma proteggere non è accanirsi”

"Il fine vita? Scelta individuale. Ma proteggere non è accanirsi"

Marta ha scelto di morire in una clinica svizzera dopo aver perso suo figlio. E non ha avvisato nessuno. Il marito lo ha scoperto da una mail dei medici di Basilea, grottescamente finita nello spam. Invece a Padova una famiglia ha assistito per ben 37 anni Alessandro, in stato semi vegetativo dopo un incidente e morto naturalmente. Due atteggiamenti diversi nei confronti della vita, entrambi intensi e pieni di pieghe intime, delicate. Ne abbiamo parlato con Alessio Musio (nella foto), ordinario di Filosofia morale e bioetica all’università Cattolica.

I parenti di Alessandro hanno detto di averlo protetto per 37 anni. Protetto. Secondo lei questo è rispetto per la vita o accanimento?

«È significativa la scelta di usare un termine come protezione’ da parte di chi per tanti anni ha voluto bene a un figlio, un fratello e un amico, riuscendo a trasformare (in modo non scontato) il dolore in una più grande capacità di cura quotidiana. Del resto, una dimensione di custodia è implicita in ogni dinamica di cura. In riferimento a una condizione di gravissima disabilità, non si tratta di accanimento. È stata una protezione da una società che spesso trasforma la vita delle persone in ‘casi’ su cui scontrarsi ideologicamente, introducendo l’idea che in determinate condizioni non valga la pena vivere».

Qual è l’equivoco più grosso da chiarire sul fine vita?

«Essere in una lunga condizione di disabilità non è essere in fine vita. Nel dibattito c’è poi qualcosa di molto sbagliato: si parla di un’astrazione».

In che senso astrazione?

«Si parla di una fase della vita dimenticando che in gioco ci sono le persone umane con le loro storie, e nelle storie non tutto accade per la propria volontà».

Come rispettare i diritti di tutti?

«Uno Stato democratico non dovrebbe, sul piano etico, permettersi di indicare le condizioni in cui non abbia senso vivere, pena la perdita del suo essere appunto democratico. Deve invece aprire a tutte le situazioni in cui ci si possa trovare a prescindere dalla propria volontà».

Riusciremo mai ad approvare una legge sull’argomento?

«Le leggi in realtà esistono, mentre nell’immaginario ci sono solo dei vuoti. Non è un caso che nel dibattito si sovrappongano situazioni molto diverse che confondono il rifiuto dell’accanimento terapeutico, con l’abbandono terapeutico, il suicidio assistito e l’eutanasia. Di fatto ci troviamo in una logica in cui la cura, la relazione, il rispetto della persona sembrano essere diventati qualcosa di sospetto: chi meritoriamente sa praticarli sente di dover proteggere se stesso e i propri cari. Siamo vittime di un modello irrealistico di self made man che non sappiamo che cosa sia, anche se si sta diffondendo sempre più e lo vediamo grottescamente realizzarsi proprio nell’atto tragico e disperato di chi chiede di potersi dare la morte o di riceverla da altri se non ne è in grado».

Cosa le chiedono i suoi studenti di bioetica?

«All’inizio delle lezioni mi chiedono di schierarmi secondo una logica partitica o da talk show, poi scoprono che questo atteggiamento è insufficiente, che le questioni sono più complesse. Quindi matura in loro la richiesta di strumenti per poter riflettere in modo autentico sulle questioni poste dalla bioetica con un atteggiamento critico, oltre al senso comune. Direi che è questa la bellezza di fare bioetica in università».

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