Mastroianni: «Ci vuole un trucco più…». Milo: «Più come?». Mastroianni: «Più da porca». Ecco lo zampino di Federico Fellini che, nel suo film della vita, 8 e 1/2, ingabbia (ma, allo stesso tempo, libera) Sandra Milo, che dovette pure prendere una decina di chili per essere ancora più formosa, nell’icona del desiderio maschile dell’Italia del boom economico.
Siamo nel 1963, due anni dopo la ritroviamo in Giulietta degli Spiriti, e il soprannome che le dà Fellini, Sandrocchia, le rimarrà per sempre e cancellerà quello piuttosto volgare di «Canina Canini», nato da una delle tantissime battute del vulcanico press agent Enrico Lucherini. Due anni prima era stata infatti protagonista di Vanina Vanini di Roberto Rossellini, prodotto da Moris Argas, sposato di lì a poco dopo un lunga e tumultuosa relazione, che al festival di Venezia non fu ben accolto tanto che, ha ricordato la diva in un’intervista a Malcom Pagani, «quell’anno speravo di vincere la Coppa Volpi che avevo sfiorato l’anno prima con Adua e le compagne di Pietrangeli. In sala accadde l’impensabile. Rossellini, forse per precedenti dissidi con Ergas, era rimasto a casa. Mi trovai in prima linea. Il pubblico, imbarbarito, iniziò a fischiare a proiezione in corso. Ululati, urla, piedi sbattuti sul pavimento».
Decide di lasciare definitivamente il cinema e per due anni, fino al colpo di fulmine con Fellini appunto, non mette piede su un set, fatto impensabile per una che tra il 1955 e il 1961 aveva girato ben 18 film con registi del calibro di Steno (Totò nella luna) e Rossellini (Il Generale Della Rovere) in Italia e Claude Autant-Lara, André Cayatte, Claude Sautet e Édouard Molinaro in Francia. Chissà se su quest’altalena cinematografica ha pesato anche la consuetudine che l’ha vista (e sentita) quasi sempre doppiata: «Tutti trovavano la mia voce orrenda. Dicevano: “Non è possibile quella voce con quel fisico”.
Poi però fu proprio Antonio Pietrangeli a non volermi doppiata in Adua e le compagne» ha ricordato l’attrice.
Un’insicurezza quasi atavica che l’ha anche portata ad allontanarsi dal cinema a metà degli anni ’80 e dove, se non fosse stato per Pupi Avati (e un piccolo ruolo in Camerieri di Leone Pompucci), non avrebbe fatto ritorno. Era il 2003, il film Cuore altrove che andò in concorso al festival di Cannes: «Ho un bellissimo ricordo di lei e la ragione per la quale la coinvolsi e la convinsi a fare quel ruolo non era tanto per l’interpretazione quanto per averla sul set e poterla in qualche modo “intervistare”, strapparle tutto quello che lei non aveva ancora detto della sua lunga esperienza professionale e non con Federico, essendo io un accanito felliniano». Però certo anche il regista bolognese ne ricorda i tratti quasi infantili: «Sandra era una donna profondamente generosa e di una ingenuità autentica, era rimasta bambina. Aveva quella sensazione di inadeguatezza che hanno solo le persone straordinarie, malgrado fosse nella storia del cinema era una che diceva una battuta, recitava una scena ed era perennemente insicura, in cerca sempre di approvazione. Sentivo i suoi occhi su di me, come se fosse al primo film, e questa è la cosa più bella».
Dopo il film di Avati, Sandra Milo non s’è più fermata, comparendo in quasi 30 titoli tra lungometraggi, corti e documentari. Certo, anche se l’abbiamo vista in Happy Family di Gabriele Salvatores, A casa tutti bene di Gabriele Muccino e, solo due anni fa, in Il materiale emotivo di Sergio Castellitto, alcuni dei 40 film che ha fatto prima fanno parte della storia del cinema e l’hanno resa una delle nostre interpreti più popolari e amate. Sandra Milo ha avuto dunque più d’una carriera cinematografica (nel 2021 ha ricevuto il Premio David di Donatello alla carriera) ma il sodalizio con Antonio Pietrangeli, con il quale aveva esordito in Lo scapolo grazie a Alberto Sordi e al suo futuro marito Moris Ergas, segna uno dei momenti magici del nostro cinema.
Prima, nel 1960, con Adua e le compagne dove, interpretando una prostituta che cerca di inserirsi nella società dopo la chiusura delle case di tolleranza, sa ben alternare i toni brillanti con quelli patetici, e poi, tre anni dopo, nel suo capolavoro attoriale, La visita, in cui è Pina, una giovane impiegata provinciale che cerca l’amore per corrispondenza. Con una grazia e leggerezza che non ha più perso e che, complice anche la vena fortemente (auto)ironica (come nello splendido L’ombrellone di Dino Risi del 1965 dove è una moglie che cornifica Enrico Maria Salerno), è stata, di fatto, la sua fortuna. Al cinema, in tv ma anche in «politica» come ricorda lei stessa, a proposito dell’amore per Craxi, in Roma, santa e dannata di Daniele Ciprì, Roberto D’Agostino e Marco Giusti, sua ultima apparizione cinematografica che potremo vedere il 16 febbraio su Rai2.