Conoscersi condanna alla “Prigione”

Conoscersi condanna alla "Prigione"

Che Georges Simenon scrivesse velocemente, è risaputo. Una settimana, revisione compresa, bastava per i romanzi con Maigret, e per gli altri erano più che sufficienti quindici giorni. Noto è anche il gustoso episodio (se non autentico al cento per cento, plausibile al mille per mille) riguardante Hitchcock. Sir Alfred gli telefona; risponde la segretaria dicendo che monsieur Georges si è appena messo a scrivere un libro e quindi non può essere disturbato; al che il regista ribatte, forse un po’ seccato, ma di certo attingendo all’umorismo inglese e alla conoscenza del soggetto: «Va bene, attendo in linea».

Anche gli eventi che lo scrittore belga metteva nero su bianco nelle sue storie del genere dur, spesso si svolgono rapidamente. Alcuni durano proprio una settimana, o anche meno. E sono i libri di Simenon più efficaci, poiché vi avvertiamo l’aderenza fra l’autore e la sua narrazione, una sorta di rivisitazione dell’«unità d’effetto» fra il lettore e il tempo della storia da lui letta, teorizzata e messa in pratica da Edgar Allan Poe nei suoi racconti. Due esempi di questa tecnica simenoniana sono I superstiti del Télémaque del 1938 e Il signor Cardinaud del 1941. Eccone un terzo, ora riproposto in nuova versione da Adelphi dopo l’edizione Mondadori del ’69: La prigione (pagg. 170, euro 18, traduzione di Simona Mambrini). Quattro giorni: da un fattaccio a un altro. Quattro giorni che trasformano un uomo da ciò che era (o da ciò che voleva essere) in ciò che non avrebbe mai voluto essere (o in ciò che, negandolo a se stesso e al mondo, era sempre stato). Quattro giorni per noi che leggiamo, ma per lui, dentro di lui, la mutazione è molto più breve. «Alain Poitaud, a trentadue anni, impiegò poche ore, forse pochi minuti, per cessare di essere l’uomo che era stato fino a quel momento e diventare un altro».

A Parigi, anzi in Francia, Poitaud lo conoscono tutti. È il direttore di «Toi» («Tu»), rivista da un milione di copie, fra lo scandalistico e il pruriginoso, cronaca mondana e vizi privati. Una moglie devota, un bimbo di cinque anni, una casa in campagna, un bicchiere di whisky perennemente in mano, una donna nuova o usata sempre pronta a infilarsi nel suo letto. Mercoledì 18 ottobre, appunto, in una sera di pioggia battente, lui parcheggia sotto casa e varca il portone. Lo segue il tale che se ne stava impalato sulla soglia. È un ispettore della giudiziaria. Insomma: la moglie di Poitaud, la sua dolce Jacqueline che lui chiama Micetta, ha tirato fuori le unghie, anzi la pistola, e ha ammazzato sua sorella minore Adrienne. Nessuno (quasi nessuno…) sa che Adrienne è stata per anni l’amante fissa di Poitaud. Nemmeno Micetta? Sì, nemmeno lei sapeva di quella tresca, mentre sapeva, e non batteva ciglio, delle altre, le occasionali… La domanda, come sempre, è una sola: “perché?”. Ma, cosa strana, sembra che a porsela, oltre agli addetti ai lavori, sia soltanto lui, il bell’Alain, sicuro di sé, pieno di sé, orgoglioso di sé. Il cognato, alto funzionario di un ministero, si chiude in un grigio e composto dolore; il padre delle sorelle, esimio intellettuale, più che struggersi, rammemora con fatalismo; la redazione di «Toi» teme lo stato di crisi; persino la donna delle pulizie, rassegnate le dimissioni, non apre più bocca. Micetta sibila agli inquirenti, i quali lo riferiscono al diretto interessato: «Lui non ha mai avuto bisogno di me. Ha bisogno della gente, chiunque sia. Non ha importanza chi si trova al suo fianco». Ed è così. Finalmente anche Alain l’ha capito, ha capito chi è l’Alain ben noto a tutti. Il sabato dei funerali, cui non partecipa, va a trovare il piccolo Patrick in campagna.

E certifica la presa di coscienza: «Era sceso nel profondo di se stesso. Aveva grattato la superficie, messo a nudo la carne viva fino a sanguina Adesso era finita».

E quando Alain ottiene la rispos a quel “perché?”, nel suo vaso ca l’ultima goccia che lo fa trabocca È una goccia di veleno, una goc che lo umilia e che lo lascia solo.

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