Non datelo per scontato, non lo è affatto. Non lo è neppure adesso che è entrato nel club ristretto dei vincitori di slam. Jannik Sinner ha nelle vene qualcosa di antico, un tempo e uno spazio che stanno lì a dispetto delle metamorfosi, di secoli passati troppo in fretta e di altri che accelerano in pochi mesi. Sinner non è virtuale, non è massa, non ha bisogno di urlare per farsi sentire. Non è binario, uno o zero, tutto o nulla, ma porta dentro di sé tutte le possibilità. È quantico. Appartiene a questi anni e mostra quello che verrà, ma le sue radici sono così profonde che raramente si disorienta. Lo senti quando scia. Lo vedi quando arriva di corsa e piazza la pallina dall’altra parte, all’incrocio delle linee. Sinner è alto e sa dove si trova. È piantato. Non perde il baricentro. È uno dei suoi segreti, l’equilibrio. È qualcosa di cui spesso si sente la mancanza.
L’equilibrio non è una virtù tanto di moda, perché l’importante è esagerare. È essere contro. È trovare qualcuno a cui opporsi per definire la propria identità. Io sono ciò che odio. Ci hanno provato, gli altri, a raccontarlo per antitesi. Sinner contro Musetti. Sinner contro Berrettini. Sinner contro Alcaraz. Sinner contro Djokovic. Non funziona, perché non solo ogni volta lui si smarca dalla logica hegeliana, ma neppure gli altri ce la fanno a guerreggiare con Jannik. L’esempio più immediato è quello che ha scritto ieri Alcaraz. «Sono così felice per te Jannik! Te lo meriti più di chiunque altro! Goditi il momento amico mio». Non è la fiera dei buoni sentimenti. È solo che nessuno dei due sente la necessità di cercare se stesso azzannando l’altro. Non sono cani da combattimento.
Sinner non è «buono», semplicemente non va in campo per rivendicare qualcosa. Non ha bisogno di fingere quello che non è. Sinner è orgoglioso della Val Pusteria e sa che la sua fortuna comincia da lì, dallo sguardo di Siglinde e dalle mani di Hanspeter. «Grazie che mi avete lasciato libero di scegliere». Grazie che avete creduto in me, senza aspettarvi per forza la vittoria. La madre e il padre lo sapevano che lui aveva qualcosa di speciale. Certe cose si capiscono in fretta, ma hanno lasciato che fosse lui a prendersi il destino. Hanspeter e Siglinde hanno continuato a lavorare nel rifugio Fondovalle, tutti i giorni, senza mai lamentarsi. Sinner le poche volte in cui si è lamentato, con una smorfia di rabbia o di fastidio, poi si è vergognato. Non è questo che gli hanno insegnato in famiglia. Il lavoro è sacro. Non ci si piange addosso. Non si cercano scuse. Non ci si rifugia in qualche alibi facile o stupido. Quello che fai dipende da te. Il talento è un dono, tutto il resto è fatica.
È l’etica di chi viene dal confine, brava gente di piccoli paesi, con la dignità del lavoro e l’ambizione onesta di sognare in grande. Non lo dici a alta voce, quasi lo sussurri a te stesso, ma dentro di te sai che quel figlio può andare lontano. Lo cresci con l’esempio. Sinner da ragazzo giocava a calcio nella squadra del suo paese. L’allenatore era il padre. Jannik non passa una palla a un suo compagno e Hanspeter lo sostituisce. Non serve spiegare perché. Questa Italia esiste e spesso è nascosta. È ovunque, ma non la trovi illuminata sulla carta geografica. È vera e non si sbraccia… Qualche volta parla tedesco.