«Un ponte per la crescita comune»: è questo il titolo della Conferenza Italia-Africa che si apre oggi alla Farnesina, dopo il rinvio deciso lo scorso ottobre in seguito allo scoppio del conflitto a Gaza tra Israele e Hamas. È un appuntamento fondamentale per il governo italiano, per il quale la premier Giorgia Meloni si è spesa in prima persona attraverso l’elaborazione del «Piano Mattei»: un disegno strategico per approfondire i rapporti economici tra l’Italia e il continente africano su un piano di parità e non attraverso un atteggiamento predatorio come in passato ed ancora oggi da parte di molti grandi Stati, in un momento cruciale per il raggiungimento della sicurezza energetica del nostro Paese e del continente europeo.
L’obiettivo della premier è indubbiamente molto ambizioso: posizionare l’Italia in prima fila tra i partner internazionali dell’Africa, al fine di sostenere lo sviluppo economico del continente e al contempo ottenere un accesso privilegiato alle immense risorse naturali di cui è dotato. E i rischi di fallimento sono concreti, specialmente se si pensa alla storia africana dalla decolonizzazione a oggi. Qualche decennio fa, la mia prima assegnazione diplomatica fu in Somalia, Paese appena nato che provava a liberarsi dal colonialismo italiano con l’aiuto dello stesso Paese che l’aveva occupata, incaricato dall’Onu di accompagnarne il percorso di sviluppo. Le sfide erano numerose ed enormi, eppure c’era una sensazione di ottimismo: occorreva diversificare l’economia (che allora era basata sulla monocoltura delle banane), creare le infrastrutture pubbliche e, al contempo, riuscire ad attrarre gli investimenti privati. Tuttavia, da allora in Somalia, come in molti altri Paesi africani, la situazione è peggiorata a causa di divisioni, guerre civili, colpi di stato, che hanno portato con sé una pessima gestione dell’economia, condannando il continente a povertà e sottosviluppo endemici.
Che fare, dunque, per cercare di correggere il tiro dopo decenni di sfruttamento delle risorse naturali e di errori nella gestione del rapporto con l’Africa? Occorre tenere bene a mente l’approccio sbagliato del passato per impostare un rapporto di partnership che utilizzi in maniera più equa le risorse locali, che abbassi i dazi commerciali (l’Italia potrebbe ad esempio proporre di creare un accordo economico tra l’Ue e l’Area di Libero Scambio africana) e che congeli il pagamento degli interessi sul debito, che ancora oggi costituiscono una vera e propria «spada di Damocle» sullo sviluppo di molti Paesi dell’area indebitati. Solo con queste precondizioni sarà possibile creare una relazione solida e vantaggiosa per entrambe le parti che garantisca accesso alle risorse economiche, normalizzi i flussi migratori verso l’Europa, e quindi favorisca una crescita economica e sociale stabile e duratura.
Il governo Meloni dovrebbe anche tenere presente che l’Italia non può fare tutto questo da sola. L’Africa è già da tempo terreno privilegiato della Cina, superpotenza economica che, in quanto regime non democratico, non impone nei suoi investimenti condizioni onerose dal punto di vista del rispetto dei diritti umani o ambientali. Ecco perché il Piano Mattei, per funzionare, dovrà utilizzare la piattaforma del G7, presieduto quest’anno proprio dall’Italia. Stimolare la cooperazione nei confronti dell’Africa insieme agli altri leader europei e occidentali è necessario per convogliare risorse e minimizzare le occasioni di frizione e antagonismo con altri Paesi (come ad esempio la Francia) che, in virtù della loro storia, mantengono forti interessi economici e strategici verso tutto ciò che si trova a sud del Mediterraneo.
L’Italia agisca dunque da regista di un programma di ampio respiro strategico che possa contare sul supporto europeo (e in questo senso è un ottimo segnale la presenza di Ursula von der Leyen a Roma) così come delle grandi organizzazioni internazionali e banche di sviluppo multilaterali.