L’attacco in Giordania rappresenta forse un punto di svolta nella strategia utilizzata dagli Stati Uniti in questa complessa sfida imposta dall’Iran. Le milizie sciite, che hanno in Teheran la loro regia, hanno alzato da tempo il tiro nei confronti della presenza statunitense in Medio Oriente, soprattutto per premere sull’amministrazione Biden.
Il presidente Usa si trova in una posizione sempre più complessa. Da un lato deve dimostrare al suo Paese di non potere ammettere che dei soldati americani cadano uccisi in territorio nemico sotto le bombe di una milizia nemica. Dall’altro lato, deve evitare di rimanere intrappolato in un conflitto regionale che rischia di essere sempre più pericolosamente vicino al confronto diretto con l’Iran. Alo stesso tempo, le elezioni presidenziali si fanno sempre più prossime. E in campagna elettorale, soprattutto contro un Donald Trump nemico delle “guerre infinite”, il peso di una politica estera ondivaga e sempre meno incisiva per evitare le crisi può essere decisivo su una leadership già fragile.
La strategia iraniana, dunque, non è casuale. Ma frutto di un calcolo molto ragionato. Teheran e i suoi “proxy” conoscono perfettamente i punti deboli dell’America e dell’Occidente, e li stanno sfruttando a proprio vantaggio. La globalizzazione basata sul commercio via mare viene messa a repentaglio dagli Houthi. a nord di Israele, Hezbollah rappresenta un punto interrogativo strategico sulla stabilità di un intero quadrante e sul rischio di allargamento della guerra oltre Gaza. In Iraq, le milizie sciite hanno ingaggiato con il Pentagono una lotta senza esclusione di colpi che ha portato anche il governo di Baghdad a chiedere un impegno per ridurre la presenza delle forze americane nel Paese, garantita da colloqui già messi in agenda dai rispettivi comandanti e ministeri. E in Siria, le milizie sciite continuano a imperversare nonostante i raid Usa e israeliani contro la rete filoiraniana.
Ogni attacco e ogni strumento usato dall’Iran ha dunque una strategia precisa ma soprattutto un obiettivo estremamente preciso. Gli Ayatollah hanno messo a nudo le difficoltà della Casa Bianca nel mantenere intatto uno scacchiere mediorientale che appare ormai in fiamme. E nel frattempo, le superpotenze partner dell’Iran (Cina e Russia) appaiono ben lontane dal premere sugli interruttori giusti per mettere fine all’escalation. Lo dimostra l’ultimo attacco contro una nave commerciale statunitense da parte degli Houthi, lanciato proprio dopo il richiamo di Pechino a un maggiore controllo da parte degli attori regionali. Ma lo conferma anche il raid in Giordania, l’ennesimo dall’inizio della guerra a Gaza dopo il 7 ottobre: un bombardamento che è giunto proprio mentre gli Stati Uniti provano a disinnescare i vari focolai regionali prima di un incendio di più vaste e indefinite proporzioni.