Anche se è militare nella forma, nella sostanza la guerra è sempre una lotta politica. E, nonostante tutte le manifestazioni contro Israele nel mondo, Israele sta sicuramente vincendo la guerra politica, quella vera, che non si combatte nelle strade ma nei ministeri degli Esteri di avversari, neutrali e alleati.
Nel maggio 1967, quando lo Stato di Israele a guida socialista godeva ancora del sostegno della sinistra mondiale, era isolato diplomaticamente, tanto da non ricevere alcun aiuto dall’Europa o dall’America quando fu minacciato di guerra da Egitto, Giordania e Siria, con discorsi infuocati e grandi manifestazioni di piazza. Fino ad allora, solo la Francia era stata disposta a vendere aerei da combattimento a Israele, ma Charles de Gaulle interruppe ogni ulteriore vendita non appena iniziarono i combattimenti. A Roma, intanto, un carico di maschere antigas dirette a Tel Aviv fu intercettato all’aeroporto, nonostante le forze di occupazione egiziane avessero recentemente compiuto stragi nello Yemen con fosgene e iprite, il famigerato «gas mostarda».
Tuttavia, la peggiore ricaduta del suo isolamento diplomatico fu il fatto che da quel momento il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non solo non avrebbe fatto nulla per aiutare Israele, ma avrebbe imposto un cessate il fuoco non appena avesse iniziato a vincere. Nel 1967, questo avvenne dopo soli sei giorni di combattimenti: le forze israeliane si erano appena fatte strada lungo i ripidi sentieri delle alture del Golan, con molte perdite, quando furono costrette a fermarsi. Io stesso ero lì, ansioso di visitare Damasco, quando l’Unione Sovietica si trovò senza opposizione al Consiglio di Sicurezza nel chiedere un cessate il fuoco immediato.
Lo stesso accadde durante la guerra dello Yom Kippur del 1973. Davanti alle offensive simultanee di Egitto e Siria che colsero di sorpresa Israele – che spesso pecca per eccesso di fiducia -, il Consiglio di Sicurezza non fece nulla, mentre Israele subì molte più vittime che in tutti i combattimenti di Gaza fino ad oggi.
Ma anche allora, non appena Israele riuscì a superare la sconfitta iniziale, il Consiglio di Sicurezza si attivò improvvisamente. Grazie alla veemente arringa di Unione Sovietica e Gran Bretagna – che cercava disperatamente di fermare la fuga degli eserciti arabi che aveva equipaggiato e addestrato per anni – le potenze del Consiglio insistettero per imporre un cessate il fuoco il 22 ottobre. Gli israeliani cercarono di continuare a combattere, ma furono costretti a fermarsi due giorni dopo, quando Henry Kissinger decretò un allarme nucleare in risposta alla minaccia di Mosca di intervenire con le sue forze aeree.
All’epoca, gli inglesi e i francesi stavano cercando di guadagnarsi il favore dei nuovi nababbi del petrolio, che erano ottimi clienti sia per i loro gioielli sia per i loro caccia. Nessuno voleva preoccuparsi di Israele, allora ancora un Paese povero che doveva spendere un quarto del suo Pil per ricostruire la sua Difesa martoriata.
Questa volta, 50 anni dopo, è stato tutto molto diverso. Stati Uniti, Regno Unito e Unione Europea non hanno cercato di fermare la controffensiva israeliana contro Hamas. Gli Stati Uniti si sono trovati senza ostacoli nell’invio di forniture militari, mentre il governo italiano si è schierato a favore di Israele (bloccando però vendite militari, per quanto di nessuna importanza).
All’Onu, Russia e Cina hanno dichiarato cerimoniosamente il loro sostegno ai palestinesi. Ma Mosca ha continuato a cooperare con l’aviazione israeliana che opera sulla Siria per attaccare le Guardie rivoluzionarie iraniane, mentre nessun partner cinese si è ritirato da una joint venture in Israele. Né i crescenti appelli a ridurre i bombardamenti su Gaza hanno avuto alcuna conseguenza effettiva, poiché i bombardamenti di Israele sono stati ridotti soltanto per mancanza di obiettivi validi.
Allo stesso modo, nessuno dei Paesi arabi con cui Israele ha relazioni diplomatiche le ha interrotte. Ancora più importanti sono le dichiarazioni del ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, Faisal bin Farhan Al Saud, secondo il quale le relazioni diplomatiche con Israele non subiranno ritardi una volta terminati i combattimenti. Anche se gli scambi di intelligence e i negoziati per collaborazioni tecnologiche sono in corso da due anni senza alcuna necessità di relazioni ufficiali, la dichiarazione del ministro è la prova che l’assalto di Hamas del 7 ottobre è fallito.
Lo scopo di quell’attacco deliberatamente orribile era proprio quello di boicottare qualsiasi alleanza tra sauditi e israeliani. Questo era certamente l’obiettivo del regime di Teheran, preoccupato per la fusione della tecnologia di Israele con le risorse finanziarie dell’Arabia Saudita. Un accordo che porterebbe inevitabilmente ad una cooperazione militare, che a sua volta porterebbe la potenza aerea israeliana a breve distanza dagli obiettivi iraniani.
Il potere diplomatico di Israele non riflette solo il suo successo economico: l’alta tecnologia militare è il motivo per cui l’India è emersa come suo fedele alleato, dato che si affida ai missili tattici israeliani per le sue forze aeree e navali, oltre che per molto altro. È anche il motivo per cui il Pentagono favorisce gli aiuti militari a Israele: le forze armate statunitensi beneficiano di un flusso costante di tecnologia preziosa, tra cui il sistema più avanzato dei caccia F-35 schierati da Aeronautica, Marina, Marines e perfino dalle forze aeree italiane.
L’alta tecnologia israeliana non ha impedito l’attacco del 7 ottobre, ma da allora ha dato ottima prova di sé. Quasi 10.000 razzi di Hamas sono stati intercettati dall’Iron Dome, evitando molte vittime e danni ingenti, mentre un missile balistico di fabbricazione iraniana e lanciato dallo Yemen è stato intercettato da un Arrow 3 nello spazio – il primo caso di combattimento spaziale dell’umanità.
Nulla potrebbe essere più estremo del contrasto tra la forza economica, tecnologica e militare di Israele e la sua cronica paralisi politica. Ma anche in questo, Israele è unico. Il giorno prima dell’attacco di Hamas, Israele era praticamente il Paese più diviso del mondo, con campi antagonisti che non riuscivano a formare un governo di coalizione. Ma subito dopo, una coalizione istantanea ha mobilitato 230.000 riservisti civili, per poi scoprire che erano arrivati anche molti riservisti oltre il limite di età, alcuni persino dalla lontana Silicon Valley.
Tuttavia, nessuna unità bellica potrà scongiurare il tumulto politico – in particolare su Gaza e la Cisgiordania – che si ripresenterà non appena cesseranno i combattimenti. L’amministrazione Biden ha cercato di sfruttare questa divisione per indurre gli israeliani ad accettare un cessate il fuoco, contando sulla richiesta sempre più forte delle famiglie degli ostaggi di abbandonare ogni altra priorità e liberarli dalla loro agonia. Ma dall’altra parte, un battaglione di riservisti israeliani, ritirati da Khan Yunis per essere smobilitati, ha inscenato una protesta per denunciare qualsiasi riduzione dell’offensiva.
La divisione politica emergerà quando terminerà l’operazione militare. La richiesta di Biden di insediare l’Autorità Palestinese per governare Gaza, tuttavia, ha un sostegno anche all’interno di Israele, semplicemente per la mancanza di qualsiasi alternativa. Ma per ora, il cessate il fuoco che deve precedere qualsiasi piano postbellico è ancora bloccato da Hamas, che vuole controllare di nuovo Gaza. L’atteggiamento di chi ha appena vinto una guerra, mentre in realtà dovrebbe fare i conti con la sua sconfitta, definita dalla perdita della maggior parte della sua forza in combattenti, leader, tunnel e razzi. Finché persisterà, la guerra continuerà, perché non siamo più nel 1967 o nel 1973 e a Israele non sarà negata la vittoria.
Traduzione a cura di Marco Zucchetti