In Turchia il pesce puzza dalla testa. L’attacco alla chiesa cattolica di Santa Maria Sariyer, a Istanbul, costato la vita ad un fedele non è un episodio isolato.
L’assalto è l’epilogo di un ventennio segnato non solo dall’autoritarismo di Recep Tayyp Erdogan, ma anche dalle crescenti violenze e persecuzioni ai danni dei cristiani. Uno scenario evidente sin dal 5 febbraio 2006 quando un fanatico uccide il parroco don Aldo Santoro sparandogli un colpo alla schiena nella chiesa di Santa Maria a Trebisonda. Nelle stesse settimane a Smirne viene aggredito il padre francescano Martin Kmetec mentre a Mersin un uomo armato di coltello minaccia di morte i francescani e i ragazzi riuniti nella loro chiesa.
E a luglio di quello stesso anno anche padre Pierre Brunissen, un sacerdote francese arrivato a Trebisonda per sostituire Santoro, viene ferito a coltellate.
L’orrore torna il 18 aprile 2007 con la brutale esecuzione a Malatya di tre missionari protestanti assassinati all’interno della Zirve Publishing House, una piccola casa editrice di materiale cristiano. I tre cristiani, Necati Aydın, U® urYüksel e il tedesco, Tilmann Ekkehart Geske, vengono legati torturati e infine sgozzati da cinque uomini penetrati nei loro uffici.
Il 3 giugno 2010 a Smirne è, invece la volta di monsignor Luigi Padovese sgozzato e decapitato dall’autista Murat Altun al grido di «Allah akbar!» (Allah è grande). Dietro questa scia di sangue non vi è il caso. Il crescendo di intolleranze e violenze è il frutto dal progressivo abbandono del laicismo kemalista di Ataturk e dal ritorno all’islamizzazione della società iniziato nel 2003 con la salita al potere di Recep Tayyp Erdogan. Un ventennio durante il quale uccisioni sacrificali e i ferimenti di preti e vescovi per mano di fanatici musulmani sono accompagnate dalle prese di posizioni con cui il Sultano, legato in gioventù alla Fratellanza Musulmana, indica la strada del ritorno all’Islam.
Tra queste la più esplicita è la riconversione in moschea della basilica di Santa Sofia di Istanbul imposta per decreto nel 2020. Un decreto, preceduto dalla sentenza del Consiglio di Stato che stabilì l’illegittimità della trasformazione di Santa Sofia in museo decisa nel 1934 da Mustafa Kemal Atatürk. Ma l’usurpazione di Santa Sofia non è un caso isolato.
Il «Direttorato degli affari religiosi» (Diyanet), controllato dai funzionari dell’Akp, il partito di Erdogan, ha avviato da molto prima il sequestro di chiese armene, siriache e ortodosse convertite poi in moschee. E lo stesso Direttorato ha investito milioni di euro per aprire luoghi di culto dalla Germania all’Albania e dalla Francia alla Somalia. Attività che hanno il duplice scopo di controllare le comunità turche all’estero e presentare Erdogan come il grande protettore mondiale dell’Islam. In questo percorso di progressiva radicalizzazione s’inquadrano le recenti uscite di un Presidente pronto a spiegare che i militanti di Hamas autori dei massacri «non sono dei terroristi, ma dei liberatori». Una scelta di campo intrapresa fin dal 2010 quando le forze speciali israeliane dovettero intervenire per fermare la Mavi Marmara una nave turca carica di attivisti islamici decisi a sbarcare a Gaza con l’avvallo e la benedizione dello stesso Erdogan.