Più la attaccano, più Meloni dura

Più la attaccano, più Meloni dura

Ho capito che avrebbero fatto fiasco con gli attacchi scompisciati a Giorgia Meloni nel mese di maggio dello scorso anno. Per una volta i giornali dei due arcinemici John Elkann e Carlo De Benedetti, La Repubblica e Domani, si dettero festosi la mano e in girotondo ballarono come i cannibali intorno al pentolone dove bollire Giorgia. Mi fermo a Repubblica dove, utilizzando molti collaboratori che intervistano «decine di testimoni», il reporter capo Carlo Bonini è convinto di averla neutralizzata per sempre. Il titolo è «La sfavorita».

Il metodo? Usare la autobiografia Io sono Giorgia e cercare di incastrarla da bambina. Meloni racconta che quando aveva quattro anni aveva mandato in fumo, giocando con le candele, il piccolo appartamento dove abitavano lei con Arianna e la mamma. Non un incendio da «Inferno di cristallo», ma abbastanza da mandare in malora due locali. L’astuto investigatore si reca sul posto. Goduria, invece di una catapecchia abbrustolita, trattasi di una «palazzina in mattoncini rossi», «ampie terrazze e un prato sempre verde alberi, palme, un manto erboso meticolosamente curato». Alt, la truffa è scoperta. Non ci sono tizzoni di carbone fumiganti, infissi anneriti, alberi ischeletriti, non c’è neanche una lapide che ricordi il grande incendio. Molti tacciono, nessuno ricorda. Inchiesta? Ecco un paio di altri scoop. «Non cita la nonna paterna», peggio ancora «non dice nulla degli zii». Sintesi: fuffa, malignità maldestre. La popolarità di lei è cresciuta.

Già prima che Giorgia Meloni si presentasse a Palazzo Chigi, erano (…)

(…) conosciuti mille e tre modi della sinistra d’appendere per i piedi l’avversario politico. Non minimizzo il trattamento riservato a Silvio Berlusconi, cui per trent’anni l’orda rossa ha applicato un manuale di tortura Cheyenne, rinunciando solo allo scotennamento data la di lui calvizie, cui peraltro ha opposto un memorabile trapianto inscalfibile. Ma con Giorgia di più.

Il fatto è che più si accordano nei vari talk show e servizi cartacei e si mettono a spararle addosso insieme quasi fosse una paperetta del luna park, più i loro turaccioli ritornano indietro colpendoli in luoghi oscuri. Non ce la fanno a tirarla giù, non solo dalla poltrona di premier, ma neppure intaccano il morale di lei e anzi innalzano il suo gradimento presso il popolo. E così, proporzionale alla crescita degli attacchi, il risultato è l’opposto di quello preventivato. Lascio ai filosofi la definizione di eterogenesi dei fini e la citazione di Nietzsche. A me ricordano gli autogol di Comunardo Niccolai, compagno di squadra e di nazionale di Gigi Riva. Gli aggressori anti-Meloni si sono incaprettati tra loro, e più si agitano tanto maggiormente soffocano, ingarbugliandosi nello scotch delle loro accuse del menga.

Ci sono ragioni tecniche di questo successo meloniano. Lo schema vittorioso è di essere oggetto di attacco concentrico di masnadieri che ostentano presunzione. Uno contro tutti vince uno, anzi una, se chi subisce l’assalto della mandria di squali ha pelle dura e sa guizzare con l’intelligenza. Con la dialettica fumosa e insultante di una Schlein, il cicaleccio da paglietta di Conte, o le sceneggiate del verde Bonelli, lei lascia mulinare la loro lingua a vuoto e poi zac. Con un argomento chiaro e finale gliela taglia. Bonelli aveva portato in aula dei sassi dall’Adige in secca. Come dire: «Colpa tua la siccità». E lei: «Non può dire che in cinque mesi ho prosciugato l’Adige, non sono Mosè. Ho molti poteri, ma non quelli di Mosè. I problemi sono pregressi». Capiscono tutti, ridono tutti, a casa si gode per l’intellettuale che si è dovuto insaccocciare pietre e sicumera.

Certo l’aiuta la stupidità moltiplicata dall’invidia dei contendenti. Che, mentre esaltano John F. Kennedy che nominò il fratello Bob ministro della Giustizia e inaugurò una dinastia ancora in campo, le rinfacciano il lavoro politico della sorella Arianna, che non ha assunto un incarico che riguarda le istituzioni, ma il partito, dove nessun iscritto ha obiettato ci fosse qualcuno più capace di lei. In quella comunità politica della destra romana emerse anche Lollobrigida: sposò Arianna, divenne capogruppo di Fratelli d’Italia all’opposizione dei governi precedenti, dov’è il problema se Mattarella lo nomina ministro dell’Agricoltura? Se il capo del Pci Palmiro Togliatti avesse vinto le elezioni, Nilde Iotti non sarebbe stata ministro oltre che deputato? Da «vedova» è stata presidente della Camera. Il matrimonio tra i politici è frequente come quello tra giornalisti, magistrati e medici: non so chi abbia sbagliato.

Non è questione solo di tecnica. Questa donna, Giorgia, ha dentro qualcosa che non era sospettabile avesse. Che non si riduce alla somma delle circostanze e alla simpatia combattente che promana, ma è una scintilla interiore che nei momenti difficili, specie sotto attacco, scocca e che nessuna intelligenza artificiale può programmare. Non è magia, ma qualità femminile. Chi, seduto sul divano, la vede rivolgere un j’accuse a Repubblica senza allusioni ma diritto e diretto, reagendo agli spruzzi di acido muriatico riservati alla sua famiglia, si identifica per forza con lei, pensa e sente che Giorgia era una di noi e resta «noi». È sola nella giungla, anzi più è sola, e più contemporaneamente tanta gente invisibile, da casa, sul tram, nei bar, le fa da guardia personale. Dura, eccome se dura.

Vittorio Feltri

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