La lezione americana del Pil Usa. Ora l’Italia pensi alla filiera

La lezione americana del Pil Usa. Ora l'Italia pensi alla filiera

L’economia statunitense conferma di essere in gran spolvero. La crescita del quarto trimestre del Pil è superiore ai 3 punti contro una previsione di 2 punti, la disoccupazione è ben sotto il 4%, anche se la richiesta dei sussidi di disoccupazione è in crescita. All’origine di questi risultati non c’è nè una poetica fiscale accattivante nè una burocrazia ridimensionata in rapporto al passato, ma una straordinaria forza delle imprese, quasi totalmente ad azionariato Usa e basata su investimenti che sovente derivano dall’essere quotate a Wall Street. Grandi dimensioni e investimenti consentono di controllare la filiera. Lo Stato interviene rarissimamente nel capitale, come è accaduto per le maggiori 10 banche con la crisi sistemica del 2008, in cui stava rischiando l’intero sistema. Sono proprio i capitoli banche e filiera e capi filiera su cui il nostro sistema politico da decenni non identifica una politica industriale per stimolarne le attività. Il sistema bancario, Monte Paschi a parte, non ha ottenuto un centesimo per superare la crisi sistemica che aveva determinato l’emergere disastroso dei crediti deteriorati, raggiungendo i 150 miliardi a rischio totale. A dare la forza alle banche di superare l’impasse furono il ricorso agli aumenti di capitale e una profonda riorganizzazione basata su innovazione e formazione del personale. Oltre a una politica degli affidamenti molto accorta: in grado di sostenere le imprese a rischio ma dai fondamentali in ordine e di valorizzare quelle avviate verso il futuro. La nostra filiera è il perno della economia italiana, in molti campi è ritenuta, a livello internazionale, unica e irripetibile, peccato che i capi filiera, gli ordinanti delle commesse, siano da decenni quasi totalmente in mani estere. Le cui decisioni tengono conto solo del costo del lavoro, della fiscalità, della burocrazia e della produttività per mantenerne o meno le produzioni in Italia. In passato i capi filiera erano a capitale italiano, sovente in caso di paventate crisi trovavano uno Stato pronto a versare contributi miliardari, ma le operazioni di sostegno evitavano le delocalizzazioni e contribuivano alla crescita di una filiera forte; mentre i capi filiera allargavano le loro presenza estera, realizzando un modello che ha consentito al nostro Paese di diventare la quinta potenza industriale del globo.

Ora le nostre produzioni industriali sono sempre più limitate alla componentistica. L’esempio dell’azienda Lear che produce la struttura dei sedili della Maserati è a rischio di totale chiusura. A deciderlo è Stellantis, proprietaria di Maserati, che pur contenendo anche la ex Fiat e avendo nel capitale i discendenti Agnelli con una quota azionaria di maggioranza relativa, prende le sue decisioni strategiche a Parigi. Correggere questo diffuso genere di decisioni è ormai praticamente impossibile. Servirebbe una politica industriale che ridia impulso agli investimenti da capitale italiano, in modo da rimpossessarsi di filiere strategiche ma a rischio delocalizzazione, ovvero scomparsa.

Bene che la premier Meloni ricordi alla dinastia Agnelli i vantaggi che ha ottenuto in Italia, ma sarebbe altrettanto opportuno che mettesse a punto un piano di politica industriale che rinvigorisca la nostra imprenditoria e la induca a investire in Italia.

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