Tratto dal romanzo La grande fuga dell’Ottobre Rosso di Tom Clancy, Caccia a Ottobre Rosso è il film del 1990 che va in onda questa sera, domenica 28 gennaio, alle 21.12 su Iris. Diretto da John McTiernan, Caccia a Ottobre Rosso rientra nel genere della fantapolitica, in cui la macchina da presa offre versioni alternative, per quanto credibili, di intrighi politici inerenti vere potenze mondiali.
Caccia a Ottobre Rosso, la trama
L’anno è il 1984 e il capitano Marko Ramius (Sean Connery) è al comando dell’Ottobre Rosso, un sottomarino sovietico che sta testando una nuova funziona rivoluzionaria: quella cioè di sondare gli abissi senza emettere alcun suono, riuscendo cosi ad essere pressoché invisibile per i nemici. Una caratteristica da non sottovalutare, soprattutto visto e considerato che è in pieno atto la Guerra Fredda contro gli Stati Uniti e ogni vantaggio deve essere sfruttato. Il vero scopo del capitano, però, è un altro: egli vuole disertare e sta cercando di raggiungere gli Stati Uniti per consegnarsi e consegnare il sottomarino. Mentre le forze sovietiche si mettono sulle tracce degli ammutinati, anche gli Stati Uniti danno la caccia a Ottobre Rosso. Il governo, infatti, teme che Ramius non voglia davvero disertare, ma che stia cercando solo una scusa per avvicinarsi abbastanza da far scoppiare una testata nucleare. L’unico a credere al capitano sovietico è un agente della CIA, Jack Ryan (Alec Baldwin), che potrebbe essere l’unico in grado di sconfiggere una minaccia internazionale che potrebbe distruggere il mondo e i suoi equilibri.
La vera storia dietro il film
Nonostante sia tratto da un romanzo di finzione appartenente alla fantapolitica, Caccia a Ottobre Rosso è ispirato a una terribile e incredibile storia vera. Come si legge su Il Corriere della Sera, infatti, la storia del sottomarino e della sua tecnica “caterpillar” inventata da Tom Clancy è ispirata ai fatti realmente accaduti alla Storozhevoj, una fregata russa che, nel novembre del 1975, tentò un vero e proprio ammutinamento. Pur non volendo fare alcuno spoiler per coloro che ancora non avessero visto il film con Sean Connery, è indubbio che al cinema esiste una romanticizzazione degli eroi che difficilmente trova spazio nella realtà dei fatti. Se, infatti, nel film di John McTiernan esiste una risoluzione per il caso del comandante sovietico reo di ammutinamento, nella realtà le cose sono andate decisamente in un altro modo. Tutto inizia l’8 novembre 1975 a Riga, capitale della Lettonia, che all’epoca rientrava nel territorio dell’Unione Sovietica, per cui accoglieva anche una base navale tra le più importanti d’Europa. Era qui che era ormeggiata la fregata Storozhevoy, sulle coste del fiume Daugava, da cui aveva partecipato alle celebrazioni per la commemorazione della Rivoluzione di Ottobre.
A bordo della fregata c’erano circa duecento uomini, tra cui Valerij Michajlovich Sablin. Come si legge su Military.com. Sablin era un politico sovietico cresciuto nell’accademia militare e politica di Lenin, fervente comunista con una scala di valori molto precisa. Tuttavia, la sua visione di comunismo non era la stessa che stava perpetrando l’Unione Sovietica che serviva. Se, nella sua mente e nel suo “credo”, il comunismo doveva essere una rivoluzione che l’autodeterminazione di tutto il popolo, la realtà politica guidata dal primo ministro Brezhnev era ai suoi occhi una realtà corrotta, piena di ladri e bugiardi, che non pensavano più al bene del popolo sovietico, ma solo al proprio tornaconto. Su Mare Nostrum viene riportato come il piano iniziale di Sablin fosse quello di ammutinarsi per portare la fregata da Riga fino a Leningrado, in modo da risvegliare le coscienze del popolo e farlo sollevare contro un governo che aveva tradito tutti gli ideali del primo socialismo, quello che era stato raggiunto grazie alla Rivoluzione di Ottobre che era appena stata ricordata.
Dal momento che Sablin aveva, sullo Storozhevoy una funzione di “controllore politico”, con lo scopo di tastare la lealtà dei suoi sottoposti, non fu difficile per lui convincere più di mezzo equipaggio a seguirlo in una folle avventura che, tuttavia, ebbe risvolti tutt’altro che positivi. Nella ricostruzione degli eventi fatta da HotCorn, si legge di come il primo passo verso l’ammutinamento sia stato imprigionare Anatoly Potulny, il capitano scelto per la guida della fregata. Tutti coloro che non erano d’accordo con il piano di Sablin fecero più o meno la stessa fine: imprigionati nei locali dell’imbarcazione e tenuti sotto controllo da “compagni” armati. Quando la notizia dell’ammutinamento arriva ai vertici del sistema militare sovietico, Sablin riceve l’ordine di tornare subito nel porto di Riga: è da poco passata mezzanotte, quando il soldato si rifiuta di obbedire e si lancia verso il mare aperto.
Come riportaInside Over la paura principale dei sovietici è che Sablin voglia “vendere” la fregata nuova di zecca alla Svezia, e per questo il ministro della Difesa Andrei Grechko e l’ammiraglio comandante della Flotta Rossa Sergeev Nikolai Dmitrievich acconsentano che una piccola flotta insegui la nave traditrice, con l’ordine di aprire il fuoco qualora la Storozhevoy superi un determinato confine internazionale. Quando Sablin rifiuta di nuovo di obbedire e di tornare indietro, il primo ministro Brezhnev dà l’ordine definitivo di abbattere la fregata: meglio vederla sparire negli abissi che correre il rischio di consegnare la propria tecnologia agli “stranieri”.
Circondato da navi da guerra e aerei pronto ad affondarlo, Sablin cerca di tenere il punto, ma il suo equipaggio – timoroso anch’esso che la nave stesse veleggiando verso la Svezia – effettua un altro ammutinamento: libera il capitano improgionato che, senza pensarci due volte, spara nella gamba a Sablin, rendendolo inoffensivo. In un secondo momento annuncia al Cremlino che l’ordine è stato ristabilito. Per il suo crimine Sablin venne prima arrestato e poi fucilato:morirà nell’agosto dell’anno successivo, ad appena 37 anni. I membri dell’equipaggio che lo seguirono vennero tutti congedati con disonore, espulsi dal partito e costretti a vivere una vita che non si poteva nemmeno definire dignitosa, impossibilitati a cercare un altro lavoro, con il marchio dell’infamia a seguirli a ogni passo.