Per Elizabeth Finch, «l’artificio non è incompatibile con la verità». Addirittura vi sono casi, come il recitare, in cui emerge come «l’artificio produca autenticità». Ma che cosa intende per «verità» e «autenticità» la professoressa Elizabeth Finch, quando si rivolge agli allievi del suo corso di «Cultura e civiltà» in un college di Londra? E che cosa si aspetta da loro?
Di sicuro, molti degli allievi sono spiazzati, ammaliati o irritati dalla singolarità della professoressa: un personaggio che sembra di vedere uscire direttamente dalla penna di Julian Barnes, e infatti da Elizabeth Finch prende il titolo il suo nuovo romanzo, come sempre pubblicato da Einaudi (pagg. 180, euro 18). Elizabeth Finch parla per epigrammi fulminanti, offre rivelazioni e provocazioni (o entrambe le cose insieme), incalza la platea di studenti con domande dall’intento dichiaratamente socratico di cavare fuori qualcosa dalle loro menti, di aiutare lo sviluppo di un pensiero, un senso critico. Fra gli ammaliati c’è Neil: all’epoca del corso è sposato con la sua prima moglie (divorzia poi anche dalla seconda), ma ha già una serie di fallimenti professionali alle spalle. Eppure, di fronte alla prima lezione di Elizabeth Finch si ritrova pieno di fiducia: «Qualcosa mi diceva che, per una volta nella vita, ero arrivato nel posto giusto».
In realtà, a fine corso Neil non riesce neanche a presentare la tesina prevista. «Il Re dei Progetti Incompiuti», come lo ha soprannominato la figlia, si è ridimostrato tale. Ma, da quel momento, inizia a vedersi con Elizabeth Finch a pranzo, due o quattro volte l’anno; e questi incontri – della durata rigorosa di 75 minuti, con conto sempre pagato dalla donna – proseguono fino a pochi giorni prima della morte di lei. Dopo la quale Neil scopre di avere ereditato le sue carte e i suoi libri, per farne l’uso più opportuno. Perché proprio lui, che non porta mai a termine nulla? E che cosa contengono quelle carte? Massime tipiche della professoressa, come quella secondo cui «travisare la propria storia è parte dell’essere una persona», che non invitano a tentare una biografia dell’autrice. Fra le carte ci sono anche materiali su Giuliano l’Apostata, l’ultimo imperatore romano pagano, la morte del quale, secondo la docente, era «il momento in cui la storia prese la strada sbagliata» e il cristianesimo si impose in modo assoluto sull’Europa: perché «niente di buono inizia» col prefisso «mono», che siano monologhi, monopoli, monoteismi o perfino monokini. E su Giuliano l’Apostata Neil si mette al lavoro. Ma questa «altra storia» che non è mai sbocciata, visto che Giuliano l’Apostata è stato sconfitto, è davvero portatrice di più «verità» e più «autenticità», solo perché frutto di un artificio diverso, ovvero quello dell’immaginazione che si esercita dal punto di vista del vinto? Questa è la domanda che né Elizabeth Finch, né Neil pongono, ma che sembra aleggiare per tutto il romanzo. La provocazione di Barnes: quando (ri)scriviamo una storia, che sia la nostra, o quella di un impero, o di un personaggio storico, quante sono le possibilità che la narrazione sia «coerente» e non «illusoria»? Forse, accenna a un certo punto Barnes, dovremmo limitarci a elencare dei fatti, eventi simili a epigrammi fulminei. E poi, come sempre, affidarci alla letteratura, per ritrovare un senso di fronte al nostro smarrimento.