Il videomessaggio «L’Italia è il Paese che amo» fu diffuso trent’anni fa giusto ieri. Solo otto giorni prima, il 18 gennaio 1994, era stato registrato un partito denominato «Forza Italia» che nell’arco di tre mesi cambiera completamente la politica del Paese. Ancor oggi, per molti, il dilemma ese l’inchiesta Mani pulite fu la causa oppure la conseguenza della discesa in campo di Silvio Berlusconi, cioe se il Cavaliere fu costretto oppure se colse un’opportunità. I detrattori premono sulla prima ipotesi e sostengono che non avesse scelta, perché, dicono, era ottenebrato dai debiti e dall’estinzione dei protettori politici. Comunque sia andata, piacerebbe a molti, questo e sicuro, essere angustiati da problemi che, per ripiego, costringano a diventare presidente del Consiglio alla testa del piugrande partito della storia italiana. Detto questo, èormai dimostrato che Berlusconi trovòattraenti e obbligate entrambe le prospettive: portare a casa la pelle e portare a casa Montecitorio.
Che Berlusconi preventivasse di fare politica da parecchio tempo è a sua volta sufficientemente provato. Il sostegno delle sue tv e dei suoi giornali a Mani pulite non èmai stato in discussione. C’erano i famosi debiti di Berlusconi (dai 3.000 ai 7.000 miliardi, si leggeva) che tuttavia non avevano mai rappresento un problema. Anche le inchieste che avevano sfiorato la Fininvest nel 1992 e in parte nel 1993 erano state ritenute trascurabili. L’8 aprile dell’anno prima, per esempio, al Palazzo di giustizia si era seduto nell’ufficio di Antonio Di Pietro nientemeno che Gianni Letta, vicepresidente della Fininvest: si parlò di finanziamenti Fininvest a socialdemocratici, ma Letta ammise un versamento di 70 milioni di lire e di spazi televisivi sulle loro reti: reato amnistiato. Poi c’era l’ex cassiere della Dc milanese che aveva raccontato di una telefonata ricevuta da Fininvest che offriva aiuti economici: ma non se ne seppe piu nulla, e da qui il sospetto, circolato per anni e a tutt’oggi vivo, che a Milano in quel periodo non toccarono Berlusconi perche interessava il sostegno a Mani pulite delle sue televisioni. I suoi nemici, ora che era disceso in campo, non smisero mai di accostarlo a Craxi nel tentativo di sfregiarlo, anche se il Cavaliere, va detto, non fece mai mancare pubbliche solidarietaall’amico. Dirànel febbraio 1994: «Craxi non ci ha sostenuto per vicinanze personali. Ha creduto più degli altri nel ruolo della televisione commerciale in Italia. Se al suo posto un altro leader socialista avesse scelto l’alternativa di sinistra, l’Italia sarebbe diventata un Paese dell’Est. Questo gli va riconosciuto. E poi, come uomo di governo, ha dato ottime prove». Lo disse in un periodo in cui il paese era idealmente ancora fuori dall’Hotel Raphael a scagliare monetine.
È dall’autunno 1993 che Berlusconi aveva deciso di accelerare: quando ossia aveva assistito alle vittoriose elezioni dei sindaci progressisti a Roma (Francesco Rutelli) e Napoli (Antonio Bassolino) e Genova (Adriano Sansa) e Venezia (Massimo Cacciari) e Trieste (Riccardo Illy). Come visto, il Cavaliere aveva detto che a Roma avrebbe appoggiato Fini. Bettino Craxi, invece, aveva offerto l’appoggio suo e del residuo Psi a Rutelli, che perol’aveva presa come un’offesa, un bacio della morte. Ed era giunto a dire: «Voglio vedere Craxi consumare il rancio nelle patrie galere». Ne seguiun risvolto comico-giuridico. La figlia di Bettino, Stefania, aveva dato del «grandissimo stronzo» a Rutelli che vinse una conseguente querela con condanna al pagamento di 50 mila lire (25 euro) ma la Craxi scelse di pagare in trentasei rate, e dietro a ogni bollettino, come causale, scrisse che era percheaveva dato del «grandissimo stronzo al sindaco di Roma». Da qui una seconda querela di Rutelli, che perola perse: la querelata scrisse il giudice Giulia Conte del Tribunale di Grosseto aveva solamente riferito «di un precedente fatto storico».
Il 22 gennaio 1994, dopo un parto travagliato, ecco entrare in scena anche Alleanza nazionale, ex Movimento sociale italiano, Msi. Tutto come da progetto ratificato l’11 dicembre, perdendo per strada una decina di fedelissimi che daranno vita a una scissione minoritaria denominata Movimento sociale Fiamma tricolore, con segretario Pino Rauti. Nome e simbolo di An saranno il contrassegno elettorale per il voto. Dopo una vita nelle cosiddette catacombe, gli scandali di Tangentopoli non li avevano toccati e ottennero buoni risultati a Chieti, Benevento e Latina. A Roma, al ballottaggio, Gianfranco Fini aveva raggiunto il 47%, e Alessandra Mussolini, al primo turno, il 31. Dal postfascismo, Alleanza nazionale approdera a una fase culturale confusa che citava Rosmini, Gioberti, Mazzini, Corradini, Croce, Gentile, Dante, Machiavelli e persino Gramsci. Il segretario di An, Gianfranco Fini, faraa gara con se stesso nel prendere le distanze da ogni ombra mussoliniana, talvolta sfiorando il grottesco, esaltando senza reticenze «l’antifascismo come momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato», spiegando che «i valori della destra preesistono al fascismo», che le leggi razziali furono «un’infamia», che «Salo fu una pagina vergognosa», che «il fascismo fu il male assoluto» e andando in pellegrinaggio progressivo alle Fosse ardeatine, alla Risiera di San Sabba e al museo dell’Olocausto, con la kippah in testa. A qualcuno parve lievemente eccessivo. Poi c’era il capo della Lega, Umberto Bossi, che ogni tanto cadeva lievemente in contraddizione: quando Mario Segni firmò con il leghista Roberto Maroni un accordo di programma, il 25 febbraio, Bossi lo straccio: «Non trattiamo con la Dc». Quando, il 31 gennaio, l’ex Movimento sociale approvò la linea di Gianfranco Fini verso Alleanza nazionale, che aprì a Berlusconi e a Bossi, quest’ultimo disse: «Non faccio accordi con chi fa accordi con i fascisti. Mai». Li farà. Poi all’inizio di marzo attaccherà dal niente Berlusconi: «Non sarapremier un uomo della P2. Mai». Lo sarà.
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