Circolano voci sempre più insistenti su un prossimo ritiro degli Stati Uniti dalla Siria e dall’Iraq. A darne notizia è la rivista Foreign Policy, secondo la quale l’amministrazione Biden, a seguito dell’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso e delle tensioni che sono emerse in tutto il Medio Oriente, starebbe riesaminando le sue priorità e valutando la possibilità di ritirare il contingente Usa dal suolo siriano. Foreign Policy osserva infatti che, sebbene non sia stata presa alcuna decisione definitiva da parte della Casa Bianca, secondo quattro fonti del Pentagono e del Dipartimento di Stato, l’amministrazione Biden non sarebbe “interessata a sostenere una missione che non ritiene più necessaria”. Cresce infatti la preoccupazione che il conflitto tra Israele e Hamas possa provocare un escalation in Medio Oriente e trasformare in facili bersagli le truppe statunitensi di stanza in Siria e Iraq, come peraltro sta già avvenendo negli ultimi mesi.
A Washington si discute il ritiro delle truppe dalla Siria
A Washington sono in corso alcune discussioni su come e quando procedere con il ritiro dei contingenti. Il presidente Usa Joe Biden non vuole rischiare di essere inghiottito in un escalation in Medio Oriente, in piena campagna elettorale per la rielezione e non può permettersi che gli attacchi delle milizie jihadiste o proxy iraniane possano mettere in pericolo la vita dei soldati americani. Dopo le guerre in Afghanistan e Iraq, l’opinione pubblica statunitense è infatti particolarmente sensibile al destino dei soldati americani. C’è, naturalmente, il rovescio della medaglia: secondo Foreign Policy, infatti, un ritiro degli Stati Uniti dalla Siria potrebbe contribuire a far rinascere organizzazioni terroristiche come l’Isis, tutt’altro che scomparse.
Sebbene “notevolmente indebolito”, osserva la rivista Usa, “l’Isis è infatti pronto a risorgere in Siria, se gli viene concesso lo spazio per farlo”. Con circa 900 soldati presenti nel Paese, gli Stati Uniti lavorano fianco a fianco con i curdi delle Forze democratiche siriane (Sdf) nel contenere e contrastare i gruppi islamisti radicali come l’Isis. Perché a differenza di ciò che si pensa, l’Isis non è morto nel 2019. Il 16 gennaio, infatti, il gruppo islamista ha lanciato un attacco missilistico contro una prigione amministrata dalle Sdf che conteneva circa 5.000 prigionieri jihadisti, innescando un tentativo di evasione di massa. Una rivolta fortunatamente sedata proprio dalle truppe curde e americane. E se le truppe statunitensi e i loro partner nella regione sono riuscite a contenere la ripresa dello Stato Islamico nel nord-est della Siria, la situazione è molto più preoccupante a ovest, sull’altra sponda del fiume Eufrate, controllata – almeno sulla carta – dal regime di Bashar al-Assad. Qui i terroristi dell’Isis si stanno riorganizzando, come peraltro accade anche nella Siria centrale e a Dar’a, dove il gruppo ha ristabilito una propria base operativa.
Alta tensione in Siria dopo lo scoppio della guerra a Gaza
La tensione nel nord della Siria e al confine con l’Iraq è salita alla fine del mese di ottobre, a seguito dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e della vasta operazione militare di Israele a Gaza. Il 27 ottobrte, gli Stati Uniti hanno effettuato attacchi aerei contro due depositi di armi e munizioni nella Siria orientale utilizzati dalle Guardie rivoluzionarie iraniane.
Il Segretario alla Difesa Lloyd Austin ha dichiarato che l’offensiva era una rappresaglia dopo gli attacchi alle basi statunitensi in Iraq e Siria da parte di gruppi di miliziani sostenuti da Teheran. Successivamente, il 12 novembre, il presidente Joe Biden ha ordinato una serie di attacchi contro una struttura di addestramento delle milizie filo-iraniane vicino alla città di Albu Kamal e un rifugio vicino alla città di Mayadin. Segnale che la tensione nel nord della Siria rimane altissima.
Il dedicalo dossier iracheno
Un altro capitolo del delicatissimo dossier mediorientale che sta creando diversi grattacapi all’amministrazione Biden passa per l’Iraq. Secondo fonti sentite dalla Cnn Washington e Baghdad stanno per iniziare una serie di colloqui per gestire la presenza americana nel Paese. Come per la Siria, il Paese rappresenta un nodo scoperto e pericoloso. Negli ultimi mesi le milizie sciite presenti nella regione hanno preso di mira basi e strutture che ospitano soldati americani. Parallelamente il Pentagono ha avvitato raid mirati per cercare di porre un freno agli attacchi. Il problema è che si tratta di tentativi non risolutivi. Gli stessi raid sono stati motivo di frizioni tra Pentagono e Casa Bianca, tra chi voleva un approccio più muscolare e chi ha preferito una risposta più velata e meno su larga scala.
La possibilità di un progressivo ritiro dall’Iraq serve all’amministrazione Biden per ridurre i rischi di soldati americani feriti gravemente o morti in un anno elettorale. Secondo fonti del Pentagono la scorsa estate Usa e Iraq hanno formalizzato la necessità di creare un commissione militare per gestire la presenza americana e soprattutto il ruolo della coalizione internazionale contro l’Isis. Lo scenario, mutato dopo i fatti del 7 ottobre, ha portato un’accelerazione. Il governo iracheno, complice anche i raid americani contro milizie sciite, ha chiesto di avviare il ritiro. Un portavoce del premier iracheno ha chiaramente detto che gli ultimi attacchi nei fatti “minano accordi tra i due paesi in vari settori della cooperazione congiunta“.
Attualmente gli americani schierano nel Paese circa 2.500 uomini che operano soprattutto come consulenti. Già nel 2021 il governo americano aveva ridimensionato il loro ruolo nel Paese, di fatto ponendo fine al coinvolgimento militare diretto. Il nodo dei colloqui tra Baghdad e Washington riguarda alcuni punti difficili da sciogliere. L’America vorrebbe garanzie sulla prosecuzione della lotta all’Isis e sulla stabilità del governo; l’Iraq vuole invece il ritiro americano come primo punto indipendentemente dalle garanzie di stabilità.
Lo spettro di un nuovo 2014
L’orologio scorre in fretta e gli americani, se da un lato guardano con maggiore interesse al ritiro, dall’altro vogliono evitare scenari già visti in passato, come il collasso delle forze armate irachene davanti all’avanzata dello Stato Islamico come nel 2014. Jon Alterman, direttore del programma per il medio oriente del think tank Csis ha ammonito che scelte precipitose, come un ritiro rapido e mal calcolato, potrebbero favorire l’Iran, “qualsiasi segnale che questo sia l’inizio della fine sarebbe ampiamente clebrato a Teheran“. Il punto è che per quanto un collasso iracheno come quello di 10 anni fa sia pericoloso, seppur meno probabile, le priorità dell’America sono cambiate e il centro degli interessi americani si è spostato dal Medio Oriente al Pacifico. Ma soprattutto l’amministrazione Biden, con indici di popolarità bassissimi, non vuole vedersi costretta ad affrontare l’ennesimo focolaio di crisi dopo quello in Ucraina, Israele e Mar Rosso.