Quando il comunismo sbranò di fame i cinesi

Quando il comunismo sbranò di fame i cinesi

Si potrebbe raccontarla come una tragedia immane – ma la parola giusta è strage – a partire dai numeri. Dovrebbe bastare la loro enormità – 36 milioni (almeno) di cinesi morti di stenti e di inedia tra il 1959 e il 1962 – per dare il senso dell’orrore provocato dalla volontà politica di Mao Tse-tung di lanciare la Repubblica popolare verso un «balzo in avanti», militare e tecnologico, che non era in grado di compiere, se non affamando le campagne.

Ma la mente umana fatica con i grandi numeri, e questo è sempre stato un sottile vantaggio per i dittatori. Non si fa spaventare dalla statistica, stempera il dramma nel freddo algebrico di cifre incommensurabili con la realtà di tutti i giorni. Ecco allora che se si ci si immerge nella lettura di Lapidi. La grande carestia in Cina di Yang Jisheng, in libreria, da oggi, per i tipi di Adelphi (pagg. 836, euro 38) si ha la possibilità di affrontare questo assurdo capitolo della storia contemporanea da una prospettiva diversa. Una prospettiva che resta sempre umana, non meramente aritmetica, e questo consente di capire. Capire la natura delle dittature, del recente passato e del presente della Repubblica popolare cinese.

In questo ha un suo specifico peso la biografia dell’autore, un giornalista che ha a lungo lavorato per l’agenzia di stampa Nuova Cina. Un uomo che incarna, porta incisa sulla pelle, l’enormità di quel dramma. Yang Jisheng, infatti, era uno studente delle scuole medie quando venne provocata la carestia. Veniva da un villaggio contadino e il fatto di essere brillante negli studi, e rapido nel disciplinarsi al marxismo in salsa cinese, era stato il suo passepartout per abbandonare la campagna e una vita decisamente misera. Di colpo, nell’aprile del 1959, venne avvisato, mentre era a scuola, che suo padre, al villaggio, stava morendo di fame. Studente modello riuscì a farsi autorizzare a tornare a casa, portandosi dietro anche un chilo e mezzo di riso.

Quando arrivò trovò il padre morente, ridotto pelle e ossa. Come gran parte dei suoi vicini. Avevano mangiato tutto, il bufalo che usavano per lavorare, le cortecce degli alberi, le erbe selvatiche anche se velenose. Nonostante il riso portato dalla scuola, il padre morì: era troppo tardi, non riusciva più ad ingurgitare nulla. Quella che fa Yang Jisheng di quegli eventi è una descrizione annichilente, confrontabile con quelle del lager di Primo Levi o con quelle dei superstiti dei gulag staliniani. Solo che va moltiplicata per decine di migliaia di villaggi. Ma, paradossalmente, questa è la parte più facile da affrontare del volume. La cosa incredibile è che Yang Jisheng, nonostante quello che aveva visto con i suoi occhi, continuò a credere che si trattasse di un incidente isolato, di un caso di sfortuna, niente che potesse essere imputato a una responsabilità del governo centrale. Per iniziare a rendersi conto davvero del fatto che la morte di milioni di persone era dipesa da una specifica, e folle, scelta politica Yang Jisheng, che pure per gli standard cinesi aveva accesso diretto a moltissime informazioni, ha dovuto attendere gli anni Ottanta e Novanta. Sfruttare surrettiziamente la sua capacità di muoversi come giornalista. Sino a quel momento aveva solo e soltanto ricevuto informazioni filtrate, manipolate.

Aver visto un frammento del disastro, aver seppellito il padre, in un villaggio devastato, non era bastato a vincere la propaganda in cui Yang Jisheng viveva immerso, come altre centinaia di milioni di Cinesi.

La grande carestia fu accompagnata dal grandissimo inganno: «Una volta ottenuto il potere, il Pcc da un lato bloccò le ideologie e le notizie provenienti dall’esterno, dall’altro rigettò interamente le norme etiche della Cina tradizionale. Il governo monopolizzò sia l’informazione che la verità. Il Comitato centrale del Pcc aveva potere su tutto. Le istituzioni di ricerca nel campo delle scienze sociali tentavano di dimostrare in ogni modo la correttezza del regime comunista; tutti i gruppi culturali e artistici facevano del proprio meglio per celebrare il Pcc; tutti gli organi d’informazione pubblicavano notizie con il solo scopo di affermare la genialità e la grandezza del Pcc. Dall’asilo all’università, il compito principale era imprimere nella mente degli studenti la visione comunista del mondo… Le persone impegnate in questo ambito erano fiere di essere considerate ingegneri dell’animo umano».

E l’ingegneria funzionava benissimo, funzionò anche con molti giornalisti stranieri che vennero portati a visitare villaggi riempiti di persone ben pasciute, proprio per dare anche all’esterno l’impressione che la crisi fosse un fatto secondario. Un incidente climatico. Mentre in realtà si era scelto di sequestrare tutto il cibo per favorire gli operai delle città, a qualunque costo. Mentre in realtà era anche un’arma politica: nelle mense collettivizzate bastava levare il pasto a chi protestava verso il regime per condannarlo alla morte per inedia. In alcuni casi i funzionari arrivarono a sequestrare dalle case le stoviglie per impedire che le persone potessero nutrirsi da sole. Si ottenne, in un lampo, silenzio mortale.

Questo libro reportage sarebbe, già per questo, un capolavoro, una lapide del ricordo costruita del materiale più solido che esista: l’inchiostro su carta, in milioni di copie. Ma ha anche un altro pregio, svelare con precisione micidiale come si costruisca una macchina della menzogna di regime. Una macchina che funziona anche oggi. Dimostra che in Cina si può far sparire qualunque cosa, anche il Covid per dire… In questo senso, più che una lapide è un monito.

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