Kaliningrad non è una città qualsiasi per Vladimir Putin. Dal punto di vista storico, essendo una città russa costruita in stile sovietico sulle rovine del capoluogo della Prussia Orientale tedesca Koenigsberg, conquistato dall’Armata Rossa nel 1945, è un luogo-simbolo del defunto impero staliniano nell’Europa dell’Est: quello che Putin sempre rimpiange e che vorrebbe ricostituire con la forza partendo dall’Ucraina. Strategicamente inoltre, dopo la caduta dell’Urss, rappresenta oggi l’avamposto della Russia verso Ovest, una exclave irta di missili con testata atomica e affollata di basi militari navali e terrestri, circondata da Paesi ex vassalli di Mosca come la Polonia e la Lituania che hanno aderito alla Nato (oltre che all’Unione europea).
In questa città Putin si è presentato ieri per quella che il Cremlino ha presentato come una visita di routine. Il suo portavoce Dmitry Peshkov ha negato che scopo del viaggio fosse «lanciare un messaggio alla Nato», ma ha poi aggiunto che l’exclave di Kaliningrad sarebbe «in pericolo a causa dei toni militaristici usati nei vicini Paesi baltici». Di recente, Putin ha ribadito che una delle sue priorità è la protezione delle minoranze russe presenti in quelle tre Repubbliche ex sovietiche e oggi parte della Nato e dell’Ue, e aveva fatto esplicito riferimento alla Lettonia, dove i russi sono un quarto della popolazione. Siccome la «protezione dei russofoni» è stato il casus belli ufficiale per l’attacco a tappe all’Ucraina cominciato nel 2014 e sfociato in aperta invasione due anni fa, questo discorso è stato letto come una minaccia a Riga e non solo.
Ormai l’invasione dell’Ucraina ha aperto gli occhi anche a nazioni europee restie a schierarsi o a considerare un riarmo difensivo. Due Paesi di lunga tradizione neutralista come Finlandia e Svezia hanno chiesto l’adesione alla Nato: Helsinki l’ha già ottenuta, mentre Stoccolma attende ancora che il filorusso premier ungherese Viktor Orbàn faccia cadere il suo veto. Ma è ormai di rischio concreto di un attacco russo che si parla apertamente in Europa, facendo cadere un tabù che risale alla fine della guerra fredda. In Svezia, ad esempio, il governo ha già diffuso opuscoli informativi in cui si avverte la popolazione del concreto rischio di un prossimo conflitto (tanto che Stoccolma, in attesa di entrare nella Nato, ha firmato accordi bilaterali di difesa sia con Washington sia con Londra) e si raccomanda di fare scorte da tenere in casa.
In Germania, Paese in cui il pacifismo è parte integrante della mentalità nazionale dopo la fine del nazismo, i vertici militari hanno lanciato l’allarme: Mosca potrebbe decidere di attaccare l’Europa, Germania inclusa, entro i prossimi cinque anni e lo stato attuale delle forze armate tedesche è tale che esse verrebbero semplicemente «spazzate via». Il cancelliere Olaf Scholz ha stanziato l’anno scorso 100 miliardi di euro per un mega programma di riarmo, ma i tedeschi stentano a comprendere che il rischio per la sicurezza nazionale specialmente se alla Casa Bianca tornasse quel Donald Trump che strizza l’occhio a Putin e detesta la Nato è reale e i generali considerano il ricorso a mercenari.
Il presidente francese Emmanuel Macron preme sull’industria nazionale della difesa affinché innovi e produca di più, perché i tempi «sono cambiati». A Londra, due giorni fa, il capo di stato maggiore generale Sanders ha raccomandato la creazione di un «esercito di cittadini» di mezzo milione di unità in grado di combattere in caso di conflitto con Mosca. L’esercito attuale – poco più di centomila effettivi – è considerato insufficiente e come accadde nei due ormai lontani conflitti mondiali, per vincere sarebbe necessaria un’armata del popolo.