Il videomessaggio di Berlusconi. E subito scoppiò la guerra dei 30 anni

Il copione immutabile

Il celebre videomessaggio «L’Italia è il Paese che amo» fu diffuso esattamente trent’anni fa (26 gennaio 1994) e «Il Giornale» ne ha dettagliatamente scritto nella puntata di martedì scorso. Tornando al 1994 e alla dirompenza di quel videomessaggio, va ricordato che il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, aveva sciolto le Camere il 16 gennaio e che il Consiglio dei ministri aveva fissato le elezioni anticipate per il 27 marzo; Berlusconi aveva giusto due mesi per inventarsi un’improbabile vittoria, anche se della sua «discesa in campo» già si sapeva, pur da poco: durante l’inaugurazione di un ipermercato a Casalecchio di Reno, vicino a Bologna, il 23 novembre 1993, aveva detto «Al ballottaggio, se fossi a Roma, nessun dubbio: voterei per Fini». Ormai la frittata (o il partito, o Forza Italia) era quindi fatta. Il giorno dopo Berlusconi pubblicherà l’opuscolo «Alla ricerca del buongoverno, appello per la costituzione di un’Italia vincente»: in pratica, il manifesto del partito prossimo a nascere. E cominciò l’assalto. Subito, immediatamente. «Ma con i camerati non si rifà l’Italia» fu l’editoriale di Giorgio Bocca (foto) sulla «Repubblica» del 25 novembre: «Anche se il Msi di Fini ha perso alcuni caratteri fondamentali del fascismo storico, ne raccoglie comunque l’eredità, candidando a Napoli la nipote di Mussolini, custodendo le memorie della Repubblica di Salò, cioè dell’alleanza fino alla morte con i nazisti del genocidio, coltivando e coprendo il neosquadrismo».

Sembra ieri, anzi, oggi. Maurizio Costanzo già la sera del 23 novembre si affretterà a confermare «il mio sostegno e il mio voto a Rutelli». E quella stessa sera, in un editoriale del Tg5, Enrico Mentana dirà che il suo è un tg libero, ma «se queste condizioni saranno modificate da vincoli diretti o indiretti ne trarremo con serenità le conseguenze». La mattina dopo, Mentana riceverà l’apprezzamento pubblico dell’Associazione nazionale partigiani per la sua «schietta e chiara presa di posizione di fronte al nuovo tentativo di rivalutare il fascismo». I giornalisti della Sbe, la Silvio Berlusconi editore, si riuniranno in assemblea. Il comitato di redazione di «Studio Aperto» comunicherà la sua «preoccupazione». Il settimanale «Panorama» preannuncerà due giorni di sciopero. Nell’elenco dei vigilantes democratici figurò purtroppo, e dapprima, anche «Il Giornale», oltre alla corrente di sinistra del sindacato dei giornalisti, Sandro Curzi di Raitre, la Cgil sezione informazione e spettacolo, il gruppo pop-jazz Avion Travel, Legambiente e i giornalisti sportivi di Fininvest-Videonews.

«L’Espresso» aveva cominciato da tempo la sua campagna: già il 10 ottobre aveva titolato «Sua Emittenza in rosso». Maurizio Costanzo precisò ancora che «se non avessi la responsabilità delle 130 persone che lavorano con me, avrei già fatto le valigie dalla Fininvest».

Berlusconi intanto tesseva trame anche inutili.

Ogni contatto con Mario Segni era andato a vuoto e Mino Martinazzoli non gli aveva risparmiato una battuta liquidatoria: «La politica non si fa col pallottoliere». E con gli ex democristiani ci riproverà: incontrerà Martinazzoli il 18 dicembre, gli darà un’ultima possibilità, rivolto anche a Mario Segni. Il 25 novembre il «Corriere della Sera» portava il primo educato attacco con un editoriale di Angelo Panebianco: «Lasci perdere, Cavaliere».

Il partito non c’era ancora, gli attacchi si. La prima uscita televisiva, il 16 dicembre, fu un mezzo disastro, anzi, intero: «Il rosso e il nero» di Michele Santoro (Rai) invitò in studio il fondatore dell’Associazione dei club di Forza Italia, Angelo Codignoni, che fu seppellito dalla foga di Mario Segni e dall’astro nascente Fausto Bertinotti. Le troupe di Raitre furono inviate in un paio di club e indugia- rono sui militanti nel tentativo di farsene beffe. Santoro, al solito, chiese a Codignoni: «Ma se venisse Craxi da voi a iscriversi, lei che cosa farebbe?».

Oggi sembra tutto ovvio: ma semplicemente nessuno, all’epoca, aveva mai pensato la propaganda politica in termini di marketing; mai, ma proprio mai, a qualcosa fatto anche di slogan e soprattutto di sondaggi in cui misurare il solo dato che conta: il presente. Forza Italia non sarà l’unico partito personale affacciato sul futuro: sarà il primo.

Prima ancora del videomessaggio, in qualche ambiente riservato erano già circolate due borse verdi in similpelle tra lo stupore generale. Contenevano alcune spille rotonde con la faccia di Berlusconi, una cravatta regimental, un prontuario per «Agire e vincere nel tuo collegio», un vademecum a colori, una lettera di presentazione autografata da Berlusconi, un opuscolo di 35 pagine firmate da Giuliano Urbani, una bandiera, un foulard, due orologi, due penne, due paia di occhiali da sole, degli adesivi, e poi delle coccarde (imbarazzanti: sparirono subito) più un’audiocassetta con l’inno di Forza Italia (e una videocassetta con la versione karaoke) che, se a sinistra avessero saputo che lo aveva composto Renato Serio, quello che ha orchestrato «La donna cannone» di Francesco De Gregori, probabilmente si sarebbero suicidati in massa come i lemming. Ai tempi era fantascienza. Oggi è modernariato.

La politica si avviava a diventare, piaccia o no, anche una confezione di cui periodicamente ridisegnare il packaging, l’immagine, i colori, il lettering, il target ossia gli acquirenti, poi ovviamente la presentazione sul mercato, il posizionamento sugli scaffali elettorali, di conseguenza la comunicazione, la pubblicità e i media in cui piazzarla: senza che la verifica del contenuto (del programma, termine obsoleto) assumesse l’unico ruolo da protagonista. Forza Italia conteneva Berlusconi, un tutto-compreso che era saldato con la storia che aveva alle spalle, sommato a una generica promessa di futuro chiavi in mano. Oggi se si va su «YouTube» e ci si va a vedere le immagini degli «altri» (il cattocomunismo serioso, la postura da comitato centrale, le giacche marroni da compagni polacchi, lo stile prima Repubblica riproposto e sopravvissuto) viene da sorridere o da farsi correre i brividi lungo la schiena; ma bisogna anche immaginare che quella, ai tempi, era la sola e unica normalità.

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