Mancano pochi minuti alle 15 quando Giorgia Meloni arriva alla Camera per il suo terzo premier-time (il secondo a Montecitorio, più uno al Senato). È accompagnata da una buona e una cattiva notizia, come testimonia l’espressione del viso che – sopra un tailleur grigio spigato – prova a non far trasparire emozioni.
Quella buona è che si vanno delineando i contorni del vertice Italia-Africa in programma lunedì a Palazzo Madama, per l’occasione adibito da Palazzo Chigi a location della riunione di almeno 23 tra capi di Stato e di governo (in tutto saranno 57 le delegazioni) per inaugurare il «piano Mattei», un progetto che punta a mobilitare almeno quattro miliardi di euro di fondi italiani.
La cattiva è l’ordine del giorno che la Lega presenta al Senato, dove si discute degli aiuti militari all’Ucraina. Perché il capogruppo del Carroccio, Massimiliano Romeo, sottoscrive la richiesta di un impegno del governo a «sviluppare un percorso diplomatico» per la «soluzione del conflitto», visto che «l’opinione pubblica italiana non supporta più gli aiuti militari» e «auspica una soluzione pacifica del conflitto». Per la premier una coltellata. Sotto diversi fronti. Quello esterno, perché sul sostegno a Kiev non ha mai esitato e perché le note incertezze della Lega sul punto sono un problema da tempo con i partner atlantici (ancora più oggi che Meloni è presidente del G7). Senza considerare che nel suo pressing Matteo Salvini guarda evidentemente alle presidenziali americane di novembre, perché dovesse vincere Donald Trump è chiaro che gli equilibri geopolitici mondiali cambierebbero. Un affondo, quello della Lega, che è evidentemente un atto ostile contro la politica estera di Palazzo Chigi. Un colpo diretto contro Meloni. E poco importa che alla fine il governo ottenga una riformulazione dell’odg, dopo – così pare – accesissime telefonate tra il ministro della Difesa, Guido Crosetto (nella foto), e il vicepremier Salvini.
Il dato politico resta il continuo crescendo della conflittualità interna alla maggioranza. Meloni contro Salvini, con Antonio Tajani – giurano i parlamentari a lui vicini – che non ha esitazione alcuna a schierare Forza Italia su «le ragioni di Giorgia», con buona pace del leader della Lega con cui i rapporti sarebbero al minimo storico.
È in questo clima, insomma, che Meloni fa il suo ingresso a Montecitorio e affronta l’annunciato duello con Elly Schlein e Giuseppe Conte. Soprattutto sul primo faccia a faccia – in vista delle elezioni Europee del 6-9 giugno – la premier ha investito molto, ben consapevole che la segretaria dem non svetta per capacità comunicativa. Di qui la sfida al confronto tv e allo scontro uno contro uno. Che Schlein ha raccolto nella consapevolezza che solo riuscire a tenere testa a Meloni (non vincere, ma non perdere) le consentirà di prendersi davvero il Pd e silenziare i dissensi interni.
Così, alla fine, Giorgia vs Elly si trasforma in una disfida in sordina. Senza gli scontri accesi cui Meloni non si sottrae mai e con Schlein che tiene botta più del previsto polemizzando sui tetti sulla Sanità «adottati dal governo di cui lei era ministro» (2008-2011). D’altra parte, a Palazzo Chigi lo sanno bene. E lo confermano i big di Fratelli d’Italia. Ad oggi – lo certificano anche i sondaggi – il problema non è l’opposizione. Ma chi nella maggioranza «non perde occasione per aprire fronti» e «alimentare criticità» che, dice un ministro di peso di Fdi, «sono imprescindibili quando governi un Paese fondatore dell’Ue e che presiede il G7».