Tom Hanlin nella miniera del dolore

Tom Hanlin nella miniera del dolore

Di un libro letto piangendo, si può iniziare a parlare sorridendo. Ad esempio: «IO STO BENE Sto bene,perrç sennth l la tua manncansq:la senyo ogni giorno di più;sto ance correggendo le bpzze di UNA voltah sola nemma vitz Il lavoro nohn mi stanca perç di sera ho li inkubi;dormo poko e male». Lo scrive il traduttore del libro, Giorgio Manganelli, in una lettera alla moglie Fausta Chiaruttini, imitando gli effetti di una macchina per scrivere impazzita, per burlarsi (e lamentarsi) di come la signora batteva i testi che lui le mandava. Correva il 1947, il libro era Una volta sola nella vita e uscì da Mondadori in marzo, numero 187 della «Medusa».

Questo romanzo di Tom Hanlin (1907-53) torna da domani nelle nostre librerie (Graphe.it edizioni, pagg. 163, euro 15,90), e chi voglia leggere previamente la postfazione del curatore Niccolò Brunelli si soffermi su queste parole messe in nota: «di sera ho li inkubi;dormo poko e male». Per due motivi: il primo, insito nella storia, densamente autobiografica, di un giovane minatore, riguarda gli incubi che suscitano le vicende di chi lavora sotto terra; il secondo, come suggerisce Brunelli, è la «volontà discenditiva» che Manganelli nel 1964 metterà a tema in Hilarotragoedia, opera che, oltre a essere una miniera di lemmi barocchi e costruzioni caleidoscopiche, lo è anche in senso non figurato: miniera, labirinto, tunnel degli orrori da luna park, ma anche, e soprattutto, inconscio. Sebbene Hanlin non parli di inconscio, bensì di quel nucleo dello spirito che tutti noi conserviamo laggiù, e che contiene la materia psichica della nostra disperazione. Scrive infatti, tradotto da Manganelli: «Le tenebre discendono in quell’angolo segreto dello spirito, nell’angolo dove si conservano le cose segrete che non si dicono mai, le cose che sono al di fuori della vita quotidiana e sono la vera vita. E quando in quell’angolo non c’è più speranza, non c’è più nulla da fare. E il mondo di ogni giorno si domanda come mai, poiché l’aspetto è lo stesso di tutti i giorni».

Questo è il significato di Una volta sola nella vita: la consapevolezza che il nostro dolore, quando ci rende senza speranza, non è più parte del «mondo di ogni giorno». Quel mondo che il protagonista Frank Stewart, un ragazzo scozzese, vede intorno a sé, ovvero lavoro, fatica, povertà, e poi affetti, matrimonio, figli e ancora lavoro, fatica, povertà, il mondo di quelli «che sono morti prima di morire», non è abbastanza grande per contenere quella sofferenza… Se è vero che, in una visione salvifica, al Bene si può giungere passando attraverso il Male, qui Hanlin fa il percorso inverso: il Bene, in questo caso l’Amore, se è rimasto interrotto, irrisolto non fa che spingere sempre più profondamente, discenditivamente direbbe Manganelli, negli abissi del Male.

Il libro è infatti una storia d’amore, tra Frank e Jenny Dewart. Nato verso i 14 anni sui banchi di scuola e proseguito per una breve, troppo breve stagione, per poi finire nel tritacarne della vita. «Il tempo trascorre dentro e fuori di noi, e ogni suo battito, in armonia col battito del nostro cuore, ci allontana da ciò che eravamo e ci avvicina a ciò che siamo. L’intervallo dell’assenza erige tra di noi un muro che ci impedisce di ritornare, ci permette solo di ricominciare». Perché la triste verità è che «si può vivere soltanto con quello che si ha a portata di mano».

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