Con la Bce di queste lune, uno sbadiglio ci seppellirà. Sopraffatti dalla noia del già detto e del già sentito, come i settemila spettatori scarsi che ieri hanno assistito alla conferenza stampa di Christine Lagarde sul canale YouTube della Bce, che di iscritti ne conta ben 90mila. Una diserzione in massa giustificata dalla prevista mancanza di novità, a cominciare dai tassi rimasti inchiodati al 4,5% con la puntuale riproposizione di un “refrain” lagardiano che è già il sapore di un classico: «Tutti abbiamo concordato sul fatto che fosse prematuro discutere di tagli dei tassi». Che, «mantenuti per un periodo sufficientemente lungo a questo livello, forniranno un contributo sostanziale al raggiungimento dell’obiettivo del 2% di inflazione».
Bisognerà forse attendere la primavera, con le nuove previsioni di Francoforte, prima che questa sorta di comunicazione a binario unico subisca qualche scartamento. I mercati che, non senza qualche ragione avevano scommesso su un “turnaround” della politica monetaria già a partire da marzo, hanno ormai capito l’antifona: le attese sono ora per una prima sforbiciata in giugno da un quarto di punto; altre tre riduzioni, di identica portata, verrebbero spalmate fra luglio e dicembre in modo da abbassare il costo del denaro al 3 per cento.
Di certo non c’è però nulla. Lagarde ha ripetuto che le decisioni continueranno a essere prese «riunione dopo riunione» e che la banca centrale resta dipendente dai dati. La presidente ha ricordato che l’inflazione è risalita al 2,9% a dicembre, ma «il rimbalzo è stato più debole del previsto» ed è «proseguita la tendenza generale al ribasso». Le complicazioni create dallo scenario medio-orientale, ultima delle quali gli attacchi contro le navi mercantili nel Mar Rosso da parte degli Houti, costituiscono però per l’ala dura della Bce un formidabile alibi per temporeggiare. «Stiamo osservando ritardi nelle consegne delle merci e aumenti dei costi di spedizione», ha detto l’ex numero uno del Fondo monetario internazionale, lasciando intendere che il livello di allerta dell’Eurotower è massimo. Benché un impatto inflazionistico non si sia ancora manifestato, lo scenario è suscettibile di cambiamenti, visto che in gioco ci sono materie prime ed energetiche. E la risalita delle quotazioni del petrolio ben oltre gli 80 dollari il barile non è un buon segno.
Anche per il timore di ricadute sui prezzi derivanti dalla tornata di rinnovi contrattuali o da margini di profitto troppo elevati, nei prossimi mesi la Bce si muoverà quindi coi piedi di piombo, memore dell’esiziale errore di sottovalutazione commesso a suo tempo, quando definì «temporaneo» il rincaro dei prezzi al consumo. Ma questo “wait and see” avrà per forza di cose ricadute su un ciclo economico già debole all’interno di Eurolandia, dove la Germania è ancora impantanata nella recessione, e un conto salato da pagare per le famiglie con mutuo e per le imprese indebitate con le banche. Madame Bce ha spiegato che, dopo aver ristagnato a fine 2023, l’economia entrerà in una fase di crescita «debole cui poi farà seguito una ripresa».
È verosimile che il confronto con gli Stati Uniti diventi impietoso, alla luce della crescita del 3,3% (contro il +2% previsto) messa a segno nel primo trimestre dagli Usa. Un ritmo inatteso che ha indotto il mercato a rivedere le possibilità di un taglio ai tassi in marzo, scese dal 76 al 42%, anche se l’inflazione si è attestata al 2,7% nel 2023 dal 5,9% di un anno prima, e il dato “core“, cioè al netto di alimentari ed energia, sia calato dal 5,1% al 3,2 per cento. La storia della politica monetaria 2024 sembra quindi ancora tutta da scrivere.