Tajani vola a Beirut: Italia regista per la pace

Tajani vola a Beirut: Italia regista per la pace

Dal 7 ottobre ad oggi il segretario di Stato Antony Blinken è volato per quattro volte in Israele e in varie capitali mediorientali. Senza tirare fuori un ragno dal buco. Dunque c’è da chiedersi cos’abbia spinto il nostro ministro degli esteri Antonio Tajani a volare ieri in Libano per poi incontrare – oggi a Gerusalemme – l’omologo Israel Katz e raggiungere Ramallah per dialogare con i capi dell’Autorità Palestinese. La risposta è che la diplomazia è come la scienza quantistica. Al suo interno la realtà assume forme in cui peso e dimensioni possono capovolgersi. Non a caso l’unico accordo di pace israeliano-palestinese si firmò ad Oslo in una Norvegia assai lontana dal conflitto mediorientale.

Ma veniamo a Tajani. La sua trasferta trae innanzitutto conforto dal successo conseguito in Europa dove ha giocato – con Francia e Germania – una parte importante nel lancio della missione navale nel Mar Rosso. Un ruolo che regala all’Italia lo status necessario per guardare a due ulteriori obbiettivi. Il primo è inserirsi nel negoziato per evitare un intervento israeliano in Libano. Il secondo è prospettare una presenza italiana nella Striscia. O meglio creare un «percorso – parole del ministro – che porti alla creazione di uno Stato israeliano libero e sicuro e di uno Stato palestinese». Un percorso in cui Tajani ipotizza «una fase di transizione con la presenza dell’Onu» e «con la presenza italiana». Terminati i combattimenti tra Israele ed Hamas l’Italia potrebbe, insomma, dispiegare un contingente sotto bandiera delle Nazioni Unite e comando arabo («il più giusto lì» – ha detto Tajani) per garantire gli assetti di Gaza. Ma quali spazi ha la nostra diplomazia? Per capirlo basta tornare all’agosto del 2006 quando l’allora ministro degli Esteri Massimo D’Alema venne fotografato a braccetto con un ministro di Hezbollah nella Beirut sconvolta dalla guerra tra Israele e Partito di Dio. Immagine criticata, ma sufficiente per capire come la diplomazia italiana possa spingersi ben oltre quella americana. Tajani non lo vedremo in simili compagnie. In compenso la nostra intelligence – chiamata a garantire la sicurezza dei mille soldati italiani dispiegati nelle basi Unifil nel Sud del Libano – ha rapporti quotidiani con il Partito di Dio o con i suoi emissari. Uno di questi ultimi, o un politico vicino ad Hezbollah, non mancherà di dialogare con i nostri diplomatici. Così come Tajani avrà la possibilità di convogliare o ricevere, più o meno indirettamente, proposte da discutere con la controparte israeliana a Gerusalemme. Concetti espressi dallo stesso Tajani ieri a Beirut quando ha spiegato che l’obbiettivo «è favorire la de-escalation… parlando con Israele, con i palestinesi e con le autorità libanesi …cercando di raggiungere un accordo terrestre come è stato per l’accordo sui confini marittimi». Parole non casuali. L’accordo con cui nel 2022 Israele e Libano, pur formalmente in guerra, delimitarono le aree di competenza per lo sfruttamento dei giacimenti di gas «off shore» è il precedente su cui si lavora per evitare un nuovo conflitto alla frontiera sud del Libano. Sul lato israeliano di quel confine 22mila sfollati attendono di tornare ai villaggi bersagliati dai missili di Hezbollah. Per questo Israele medita un massiccio intervento in territorio libanese. L’intervento dovrebbe, nei piani, spingere Hezbollah fin oltre la sponda del fiume Litani, 29 chilometri più a nord, garantire la creazione di una fascia di sicurezza e mettere fine al lancio di missili. La soluzione per evitarlo, già prevista peraltro dalla risoluzione Onu 1701 del 2006, è convincere Hezbollah a un consistente ritiro compensato dalla discesa a sud di reparti dell’esercito libanese. Il tutto sotto la supervisione di Unifil. Una proposta difficile da far digerire non solo al Partito di Dio, ma anche ad un Bibì Netanyahu che guarda all’Onu come ad un complice dei propri nemici. Ma Tajani è convinto che l’Italia abbia le carte in regola per tentare dove gli altri hanno fallito. E magari tirarsi dietro quell’Europa che, senza l’Italia, non sarebbe andata neppure nel Mar Rosso.

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