Il nuovo romanzo di Federica Manzon si intitola Alma (Feltrinelli, pagg. 270, euro 18; l’autrice lo presenterà sabato prossimo a Rovereto, alla Libreria Arcadia, ore 19 e giovedì 1 febbraio a Torino, al Circolo dei lettori, ore 18), che è il nome della protagonista. Ma protagonista è anche Trieste, la città in cui Alma ritorna, per ricevere l’eredità del padre morto da poco, un uomo fuggitivo, forse una spia, forse colui che «scriveva i discorsi» al Maresciallo Tito, uno sempre di là dalla frontiera, quando ancora c’era la Jugoslavia. La Alma adulta è una giornalista e vive a Roma, lontano dalla sua Trieste (che poi quale sarà, quella asburgica e perfetta dei nonni materni, o quella del porto e della caotica casa sul Carso in cui la madre si rifugia?) e, per ricevere questa eredità, dopo trent’anni deve rivedere Vili, un ragazzo serbo accolto dal padre in casa loro: il primo amore e il primo grande tradimento da parte della vita.
Federica Manzon, partiamo da Alma?
«Per me Alma è un personaggio nato attorno a due cose. La prima è una inquietudine, quella di chi non trova un posto a cui appartenere e, allo stesso tempo, si sente di appartenere a un luogo da cui si allontana; quella di chi non è sicuro di quel posto rispetto alla propria identità. E questa tensione, per me, è Trieste».
L’altra?
«Una citazione da Il richiamo di Alma di Stelio Mattioni: uno spirito della città di Trieste che incarna una inquietudine sia rispetto alla geografia, sia rispetto al tempo. La domanda è: che cosa facciamo di tutto il passato e della memoria che ci determinano ma, allo stesso tempo, sono anche ingombranti? Questo passato ci àncora all’impossibilità di immaginare il futuro».
Lei però non è triestina.
«Sono nata a Pordenone ma vivo a metà fra Trieste e Milano. Casa, per me, è Trieste. E anche questo è un tema: sentire di appartenere a un luogo che ti corrisponde anche se non ci sei nato, ma a cui sei legato per eredità».
Quale eredità?
«L’eredità della città per me è la libertà, che a sua volta è tante cose: la geografia, con l’apertura grandiosa al mare; il confine, sempre lì presente, che è il confronto con l’alterità, qualcosa di diverso e minaccioso… Non sei mai consegnato a una identità monolitica: anche questa è libertà».
Che ruolo ha il passato nel libro?
«Alma cresce nelle intersezioni di due contraddizioni: il nonno, che la educa al culto della memoria e le dice che, se vuoi capire le persone, devi conoscere il passato; e il padre, che le intima di non guardare mai indietro, e in effetti dalla sua Jugoslavia arriveranno rivendicazioni e rancori…».
Come se la cava?
«È una contraddizione che non risolverà mai. E col padre ha un legame sempre desiderato, ma precario».
E pieno di segreti.
«C’è molto non detto: negli anni della Guerra fredda, Trieste è il confine con l’altro mondo, anche pericoloso, perché si teme l’invasione delle truppe titine».
È il «di lì» che attraversa il romanzo?
«Da un lato, letteralmente, a Trieste c’è l’abitudine di dire dall’altra parte: un posto indefinito, estraneo, ma vicinissimo. Dall’altro, simbolicamente, c’è questo continuo andare e venire nella ricerca di Alma del suo percorso fra identità e desideri diversi: il confine ti ricorda che sei movimento».
Tito, Basaglia, Bazlen: ci sono anche dei «fantasmi» nel libro?
«Tanta parte del romanzo dice di liberarci dei nostri fantasmi: Trieste è dominata da essi e dal sogno di quando era parte dell’Impero… Io stessa mi contraddico, facendo comparire alcune figure storiche che mi interessano, come Tito, o Franco Basaglia, per lo spirito che ha lasciato in città, o il suo collaboratore Franco Rotelli, una grande anima che ha significato molto. È morto mentre scrivevo il libro».