La vita è uno spettacolo. O piuttosto un show televisivo? Negli anni ottanta Federico Fellini si lanciò come Don Chisciotte contro i mulini a vento della pubblicità che interrompeva i film in tv, armato del famoso (quanto vano) slogan «non s’interrompono così le emozioni». La sua battaglia divenne poi anche cinema con Ginger e Fred: apologo, a metà fra sorriso e visionarietà, contro il becerume di certa tv consumistica. Nell’adattare la sceneggiatura di quel film (firmata Fellini, Guerra e Pinelli) a spettacolo teatrale, che anche dirige, Monica Guerritore non torna solo sulla critica alla tv che maschera la realtà; ma con una grande produzione scenica (ora in tour, e dal 30 gennaio al 4 febbraio alla Pergola di Firenze) vuole anche dare nuovo corpo alle intuizioni poetiche che quella critica racchiudeva.
Monica Guerritore, come ha avuto l’idea di questa incosueta trasposizione?
“Tutto è nato dal gruppo di attori che avevo diretto in L’anima buona di Sezuan. Così bravi nel dar vita ad uomini che si prestano ad interpetarne altri, da spingermi a riflettere su quanto nella realtà le persone siamo diverse da come le obbliga ad apparire, mascherandosi, una certa tv. Ma la vita degli esseri umani non è quella: si può raccontare altro, oltre le maschere di Tale e Quale o de Il cantante mascherato.
Pensare a Ginger e Fred, a questo punto, è stato inevitabile”.
Il copione dello spettacolo segue dunque la sceneggiatura del film?
“L’abbiamo trascritta e quindi elaborata. Come nel film troviamo Amelia e Pippo, due ex ballerini di tip-tap che, riesumati per un’improbabile rentree nello show natalizio di una tv commerciale, vengono catapultati in un turbinoso baraccone di figure bizzarre e situazioni assurde. Loro, che sono rimasti autentici, si trovano in mezzo ad un gruppo di sosia –controfigure di Clark Gable, Brigitte Bardot, Rita Hayworth, del tenente Kojak… cioè di poveri artisti che, per essere qualcuno, devono sembrare qualcun’altro. Non basta: loro, che hanno sempre lavorato sulla costruzione paziente del proprio talento, qui sono costretti a fare tutto di corsa, come viene viene, senza cura, senza amore per quel che si fa, perché ridotti a semplici elementi di un ingranaggio industriale. Esseri umani che, in fondo, devono soprattutto fare da riempitivo fra una pausa pubblicitaria e l’altra”.
La vecchia battaglia di Fellini contro le interruzioni pubblicitarie valida ancora oggi?
“Non si tratta solo di questo. Il mio spettacolo non è solo una trasposizione scenica di quel film, ma una rilettura dell’intuizione che espresse quarant’anni fa, e che è più attuale che mai. Il bombardamento pubblicitario trasforma lo spettatore in consumatore senza che lui se ne accorga. Ignoto anche a se stesso”.
Oltre questo, però, in Ginger e Fred c’è ancora dell’altro.
“Sì: il senso dell’incompiutezza. Mentre aspettano di andare in onda, lanciati sul set come bestie ammaestrate agli ordini di un presentatore-domatore, questi poveri sosia svelano la loro reale umanità. Prima di fingere, insomma, diventano veri. Sono come i Personaggi incompleti di Pirandello: in cerca di autore. E la loro incompiutezza, oltretutto molto comica, si rispecchia in quella dell’amore che Amelia aveva provato in gioventù per Pippo, e non si era mai realizzato. Solo ora, in mezzo a quel baraccone di finzioni, complice il buio causato da un imprevisto black-out elettrico, ha il coraggio di confessarglielo”.
Anche quando puntava il dito Fellini non perdeva mai la dimensione ironica, giocosa, paradossale.
“E anche noi vogliamo cogliere i lati istrionici, i risvolti poetici di questa storia. Per uno spettacolo che vuol essere sorridente, luminoso, buffo. E velato dalla malinconia delle cose che non si compiono”.
Gli ammiratori del film, vedendola ballare Cheek to cheek, penseranno inevitabilmente a Giulietta Masina.
“È logico, e anche legittimo. Ma io evito i paragoni mettedo l’accento sulle idee di Fellini, non sui suoi attori. Così Amelia non è la Masina ma una ex soubrette un po’ avanti cogli anni; com’era Anna Magnani nel Risate di gioia di Monicelli. Una signora per la quale l’età giusta è passata, ma che è rimasta profondamente curiosa di tutto ciò che la circonda. A maggior ragione nel delirio dello studio televisivo in cui si ritrova”.
Adattatrice del testo, interprete, accanto a Massimiliano Vado, che è Pippo, regista. Ancora una volta Monica Guerritore è artefice in prima persona del proprio teatro.
“È il frutto di una lunga maturazione. Sono partita dal teatro di regia: dal giorno in cui, giovanissima e ignorante di tutto, mi sentii dire da Strehler, “Tu siediti in platea e guarda”. Così, pur attrice, il mio punto di vista è stato subito quello dello spettatore. E quando, attraverso il lavoro con Gabriele Lavia e Giancarlo Sepe, ho sviluppato il richiamo di un teatro poetico, ho sentito subito come avrei voluto realizzarlo. E ora non riesco pensare al teatro senza anche ‘vederlo'”.