L’elezione del democratico Jimmy Carter alla presidenza degli Stati Uniti, nel 1976, venne salutata come l’inizio di una stagione di rinnovamento. L’inquilino della Casa Bianca doveva lasciarsi alle spalle tre ferite sanguinose che avevano lacerato il paese: la «sporca guerra» combattuta e persa malamente in Vietnam; lo scandalo Watergate che aveva costretto il presidente repubblicano Richard Nixon alle dimissioni; la profonda crisi economica, industriale e sociale. Già due anni dopo era chiaro a tutti che Carter oltre le parole non riusciva ad andare. La sua amministrazione arrancava di giorno in giorno. Sino al colpo finale: l’assedio dell’ambasciata americana a Teheran nel novembre 1979, e il tentativo militare per liberare gli ostaggi. All’operazione venne affibbiata una definizione muscolare: «artiglio d’aquila». Si trasformò in una fallimentare scorribanda di polli.
Il fracasso elettorale arrivò implacabile. Alle elezioni del 4 novembre 1980 il repubblicano Ronald Reagan distrusse Carter. Ma torniamo al 1978. Per una semplice ragione. In dicembre in una sala di New York e una di Los Angeles, prende avvio la straordinaria avventura di un film indefinibile. Capolavoro, testo canonico, pellicola epocale, opera mondo? Ogni possibile etichetta è al tempo stesso giusta e limitata. Stiamo parlando de Il cacciatore di Michael Cimino. Il film, a quarantacinque anni dall’uscita, viene nuovamente programmato sugli schemi italiani, nella versione restaurata. Rivedendolo si prova una netta sensazione: il quasi mezzo secolo trascorso in realtà non è passato. Il cacciatore è, come apparve chiaro sin dalla sua uscita, un film imprescindibile. L’opera più lucida, complessa e rilevante (sul piano etico, spirituale, storico e sociologico) del cosiddetto «nuovo cinema» americano o, se si preferisce, della «nuova Hollywood». Sgombriamo il campo da alcuni equivoci. È un film di guerra? Un film sulla «sporca guerra» in Vietnam? Sì e no. Meglio definirlo una moderna tragedia in tre atti. Il primo atto una lenta premessa si svolge in una comunità (russo-americana) della Pennsylvania. All’amicizia di alcuni coetanei si intrecciano duro lavoro in fabbrica, radicate tradizioni locali, amori e tradimenti, legami matrimoniali, speranze e inquietudini. E la caccia al cervo. Ma con onore. Un solo colpo nel fucile. O l’animale è abbattuto o sopravvive in libertà.
Nel secondo atto tre amici sprofondano nell’inferno vietnamita. Gli è arrivata la chiamata alle armi. E sono partiti. Fatti prigionieri, subiscono un trauma bestiale. Debbono partecipare alla «roulette russa». Un solo colpo nella pistola a tamburo, da spararsi in testa. La fortuna decide l’esito. Due amici riescono a tornare a casa, psicologicamente e fisicamente distrutti. Il terzo resta. La guerra è finita ma lui continua a sfidare la sorte della «roulette russa», non per obbligo (tortura) ma per scommessa. Il terzo atto è il ritorno alla casa, alla terra madre, alle tradizioni. Non alla normalità, poiché chi ha assaporato i frutti avvelenati del maligno, li ha digeriti, restandone però avvelenato nel corpo e nella mente per sempre. La guerra del Vietnam è stata anche un conflitto per immagini. Ha dato vita ad un filone cinematografico e mediatico in costante crescita. L’ideologia ne ha contraddistinto il senso profondo. Una mela spaccata a metà. La prima parte è stata la rappresentazione della dannazione (Apocalypse Now di Francis Ford Coppola del 1979). La seconda quella dell’orgoglio ritrovato (Rambo di Ted Kotcheff del 1982). Il cacciatore non appartiene né alla prima né alla seconda parte della mela. Rappresenta la mela intera, senza cesure. Non è un lamento, un’invettiva all’indirizzo dei responsabili della guerra. Non è, d’altro canto, una esaltazione del combattente e del combattimento. Gli amici sono amici. I nemici sono nemici. La crudeltà dei vietcong non solo non è nascosta, ma esaltata alla massima potenza. Il cacciatore suggerisce una constatazione semplice e cruda: nella battaglia non si combatte per la divisa o la bandiera, ma per la preoccupazione e la difesa di quanti stanno accanto a te. Amici-fratelli. Una volta tornati in patria restano quelli che sono stati e sempre saranno: amicifratelli (anche se non ci sono più) da comprendere, aiutare, ricordare.
Cimino, Nel film-manifesto, aveva chiuso il discorso relativo alla «sporca guerra». Non esistono guerre pulite. A loro modo sono tutte sudice. Al termine della narrazione si torna alla fabbrica, alla propria casa, alla caccia al cervo. La mente non è più sgombra come un tempo. Il passato spesso si manifesta in incubo e terrore. Ma è la vita di un individuo, di una comunità, di una nazione. In Vietnam non si sono persi l’onore, l’innocenza, la purezza, i sogni, l’avvenire. Molti hanno perso la vita. Ad alcuni il corpo è stato mutilato. Ad altri il senno è evaporato, rimpiazzato dalla follia. Le guerre sono tutte uguali e perennemente diverse. Dai tempi di Tucidide e della sua meticolosa narrazione del conflitto del Peloponneso (400 a. c.), a Le Benevole di Jonathan Littel (2006), che si addentra negli orrori del secondo conflitto mondiale, tutto è cambiato e nulla è cambiato. Le armi sono diverse. Gli uomini restano gli stessi. Il cacciatore di Michael Cimino può essere considerato L’ecclesiaste del genere cinematografico ispirato dalla guerra del Vietnam. Cosa resta del coraggio, della paura e della fuga, dell’onore e dell’ignominia, della vittoria e della sconfitta? Vanità. Tutto è vanità. Resta la fiducia nella terra dei padri. Nella tradizione. Nell’America, non dannata ma invocata nel canto finale: «God 12 Bless America. My home sweet home»