Le gocce che hanno fatto traboccare il vaso sono state probabilmente il confronto impietoso col Nikkei e il sorpasso indiano. Mentre l’indice azionario giapponese ha iniziato il 2024 al galoppo e l’India ha superato per la prima volta Hong Kong come quarto mercato azionario più grande al mondo, l’Hang Seng rimane un ronzino sfiatato. Di più: il perfetto paradigma delle difficoltà in cui è impantanata la Cina. Ecco così partire il «contrordine, compagni», ad appena una manciata di giorni dall’annuncio di Davos con cui il premier Li Qiang aveva espresso cautela sulla possibilità di varare misure di sostegno: Pechino, come rivelato ieri da Bloomberg, si prepara a mobilitare da conti offshore di imprese statali 2mila miliardi di yuan (circa 280 miliardi di dollari) allo scopo di stabilizzare il mercato azionario e ripristinare la fiducia degli investitori.
Si tratta di uno sforzo finanziario che potrebbe rivelarsi insufficiente, poiché gli aiuti corrispondono ad appena il 2% del Pil del Dragone e non vanno a risolvere alla radice i mali strutturali di un Paese invecchiato e impaurito, dove il risparmio accumulato dai cinesi non viene canalizzato verso i consumi nonostante il ciclo deflazionistico; e dove la tradizionale valvola di sfogo delle esportazioni fatica a garantire afflussi di valuta estera a causa di una ripresa globale compressa da inflazione e alti tassi d’interesse.
Pechino ha di fronte una montagna da scalare con uno zaino ingombrante sulle spalle, riempito dai rovesci subiti nell’ultimo triennio da suoi indici azionari, un tempo esibiti come la prova delle «magnifiche sorti e progressive» del capitalismo in salsa autoritaria. Tracolli veri e propri di cui l’indice Csi, collassato del 47% dal picco raggiunto nel febbraio 2021, e dell’HSI (-49%) rappresentano la punta dell’iceberg. Una parabola discendente non ancora conclusa, visto che quasi 33 miliardi di renminbi (4,6 miliardi di dollari) di capitali stranieri sono defluiti dal mercato cinese in questo primo scorcio di 2024. Peraltro da sommare ai 33 miliardi di dollari messi in fuga l’anno scorso (quasi un azzeramento rispetto al ’22), la miglior cartina di tornasole dello scetticismo della finanza internazionale sulle possibilità dell’Impero Celeste di riagguantare i tassi di crescita ruggenti che hanno contraddistinto il Paese nel periodo pre Covid.
L’espansione del 5,2% su base annua nel quarto trimestre, contro attese di un +5,3%, ha mostrato che la strada verso la stabilizzazione è ancora lunga e che il passo attuale impedirà alle aziende di tornare a mettere a segno gli utili vertiginosi di un tempo. Anche perché l’irrisolta crisi del settore immobiliare, deflagrata col crac di Evergrande, lascia voragini sotto forma di un calo fra il 30 e il 40% delle transazioni immobiliari dal 2012.
Eppure, le indiscrezioni di Bloomberg circolate nella giornata di ieri hanno mosso qualcosa, con un controvalore di 3,8 miliardi di yuan di azioni cinesi acquistate dagli investitori internazionali e la Borsa di Hong Kong salita del 3 per cento. Come se la mossa di Pechino fosse solo l’antipasto di future misure di stimolo ben più consistenti. Provvedimenti che si andrebbero a incastonare all’ormai spenta pressione sullo yuan e alla probabile traiettoria discendente dei tassi Usa, con ciò creando le condizioni favorevoli per ridare finalmente un po’ di colore alla Borsa cinese.