L’Italia è il Paese che amava e il 26 gennaio 1994 fu il giorno che Silvio Berlusconi scelse per registrare e diffondere il suo famoso videomessaggio del «miracolo italiano»: non ad Arcore, come molti credono, ma in un cantiere trasformato in set televisivo, tra calcinacci, polvere e sacchi di cemento. Si trovarono a Macherio, non nella villa, ma in una parte di giardino dov’era in costruzione una dependance con uffici e la biblioteca del presidente. Non c’erano neanche le finestre: solo muri scrostati e fessure con tendoni. Tra l’altro fu una corsa contro il tempo: il videomessaggio serviva entro sera per distribuirlo ai telegiornali.
Un altro mito da sfatare è la celebre calza di nylon sull’obiettivo che sarebbe servita a ottenere immagini più soffuse e sognanti, e qui si apre una parentesi: a parte l’improbabilità pratica provate voi a farlo, poi ci direte da almeno tre decenni Roberto Gasparotti, regista personale di Berlusconi da ben prima che facesse politica, smentisce con decine di interviste la trovata suggestiva della calza: l’ha fatto sempre tranne improvvisamente ieri su Repubblica, dove anche nel titolo si legge «La calza è stata una genialata» ma nel testo, la calza, non la cita mai: e non s’offenderà nessuno se continuiamo a credere al Gasparotti che anche noi conosciamo da decenni. Era soltanto, per farla finita, un banale effetto che già allora si poteva ottenere da qualsiasi telecamera amatoriale (bastava un cacciavitino) anche se lo usavano in pochi: oggi lo chiamano skin tone ed è quello che in fotografia si chiamerebbe filtro flou o diffusore, oggi molto gradito alle conduttrici ex di Raitre.
Si torna al 26 gennaio 1994, quando Berlusconi, uomo di sondaggi, tenne i primi rigorosamente per sé, come non fecero i suoi avversari: una ricerca del Cirm di Nicola Piepoli, citata dal Tg3, dava Forza Italia solo al 6 per cento. Il pidiessino Walter Veltroni disse che era un risultato da «seconda serata». Nel giorno della registrazione del videomessaggio faceva un freddo boia e fuori nevicava; gli arredi, cioè la scenografia, ovviamente venivano dalla villa di Macherio: scrivania, libri, foto incorniciate, e tutto il resto. Il video doveva durare 9 minuti e mezzo ed erano tutti angosciati perché temevano di non fare in tempo: per tornare a Milano con le cassette c’era pure l’incognita del traffico. Factotum era appunto Gasparotti: anche negli anni successivi, se un suo tg vorrà intervistarlo, dovrà scordarsi di mandare una troupe: ci sarà sempre Gasparotti con i suoi. Raccontarono che il discorso «L’Italia è il Paese che amo» avesse goduto del vaglio ora di Paolo Del Debbio, ora di Gianni Letta, ora di Giuliano Ferrara, e poi di Fedele Confalonieri e di altro mezzo mondo: ma dietro Berlusconi c’era sempre il vaglio di Berlusconi.
Il famoso video a suo modo avrebbe rivoluzionato la comunicazione politica italiana. Era una vecchia videocassetta Beta che fu inviata a tutti i telegiornali, anche se solo il Tg4 di Emilio Fede e Studio Aperto di Paolo Liguori la mandarono in onda integrale. E non è semplice essere semplici: «L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare». Eccetera. La parola «libertà» era ripetuta sette volte.
Il Tg3 la troncò subito e chiamò a commentarla il verde Mauro Paissan: «Mi ha fatto ridere. Per la sinistra, Berlusconi in politica è un vantaggio». Al Tg1, il candidato progressista Achille Occhetto parlò di discorso «risibile». Su Telemontecarlo (c’era Telemontecarlo), Sandro Curzi fece un editoriale che derideva tutto il discorso. Poi i giornali. Segue una micro rassegna stampa in ordine sparso. Eugenio Scalfari sulla Repubblica con titolo «Scende in campo il ragazzo coccodé»: «Ieri mattina il Grande Fratello era là, finalmente si era materializzato, si era incarnato, corrispondeva ai desideri repressi dei suoi fans, alla loro voglia di esibire i muscoli, abrogare la ragione, di sostituire la tolleranza con l’arroganza del potere». Il compianto Curzio Maltese sulla Stampa: «Ricorda da vicino il salottino di rappresentanza di Guido Angeli, il profeta di Aiazzone. I toni sono da tema scolastico da quarta elementare». L’ancor più compianto Giampaolo Pansa sull’Espresso, a dimostrazione che l’abbaglio non risparmiò neanche i migliori: «Vincerà l’alleanza progressista… Forse il Silvio in carne e ossa è davvero defunto… replicante torvo, dalla fissità quasi robotica, i tratti tirati e smagriti da un chirurgo plastico cresciuto alla scuola del dottor Frankenstein… E le mani? Mani come artigli… Un incubo sempre ritornante. Un fantasma mummioso che risulta impossibile scacciare… Che errore, Sua Emittenza! Potrà capitarle di essere sbranato… Si prepari a perdere, o impopolare miliardario di Arcore. Ha presente il suo amichetto Bettino Craxi? Temo che a lei andrà peggio. Molto peggio». Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera: «Spira da Berlusconi politico qualcosa che ha il sapore finto della plastica e ha la cadenza rigida, automatica della clonazione messa a punto in laboratorio… si illude di essere il medico: viceversa, proprio lui è la malattia».
Tra i pochissimi a capire che stava succedendo qualcosa ci fu Sandro Viola sulla Repubblica del 24 febbraio, che almeno alzò il sedere e fece un giro per il Nord Est: «Dietro le bandiere di Forza Italia si muove un esercito con connotazioni marcatamente popolari. Non solo nani e ballerine, non solo yuppies di provincia, non solo calciatori e funzionari Fininvest. Sono gli stessi italiani che votavano per la Dc, per il Psi, per il Psdi, per il Pli e che sul finire degli anni Ottanta hanno cominciato a votare per la Lega… Malgrado l’ignoranza brava gente. Italiani. E in più, italiani molto spesso con la partita Iva: quelli che hanno lavorato, prodotto, risparmiato, consentendo al Paese di sopravvivere nonostante la gestione disastrosa della cosa pubblica condotta dai vecchi partiti».
Pur su Repubblica, Sandro Viola (morto nel 2012) aveva capito molto già allora. Sullo stesso quotidiano, molti faticano e parecchio ancora oggi.
1-continua