Sogno, alibi, drammatica necessità: il dibattito sulla difesa comune europea va avanti da tre quarti di secolo, risorgendo come un’araba fenice dalle proprie ceneri ogni volta. E senza portare mai a svolte davvero significative. Un sogno per chi, dal Dopoguerra a oggi, ha lavorato per una vera sovranità europea capace di superare i miopi e velleitari nazionalismi delle piccole patrie. Un alibi per chi è afflitto da eredità genetiche anti-atlantiche (la sinistra post comunista) o è allergico alla cultura liberale e abbacinato da nuovi equilibri strategici guidati da potenze anti-democratiche come Russia e Cina: basti pensare a quante volte la fantomatica «difesa comune europea» è stata evocata, ad esempio, dai Cinque Stelle per condannare la linea euro-atlantica di appoggio alla resistenza ucraina contro Putin e qualsiasi investimento sulla difesa. Fino a rinnegare gli impegni sottoscritti dallo stesso ex premier Conte sul contributo pari al 2% del Pil dell’Italia alla difesa Nato.
Drammatica necessità per il rischio che, tra pochi mesi, alla Casa Bianca approdi Trump, che si dichiara pronto a svuotare la Nato e ad abbandonare non solo l’Ucraina ma l’intera Europa al violento espansionismo russo. Il tema torna di attualità ora che si discute della missione di alcuni paesi Ue (Italia inclusa) nel Mar Rosso, a difesa dei traffici marittimi contro gli attacchi degli islamisti Houthi: «Può essere un primo passo verso una vera difesa comune europea», ha sottolineato ieri il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Un obiettivo che, almeno nelle intenzioni, ha unito in questi decenni leader italiani di opposta estrazione.
Da Silvio Berlusconi («Abbiamo sempre lavorato per l’unità dell’occidente e la difesa di libertà e democrazia: l’Europa, oltre a dotarsi di una politica estera comune, deve avere un esercito e una difesa comuni, per essere protagonista di una forte Alleanza Atlantica») a Romano Prodi («L’Europa divisa conta sempre meno, è indispensabile l’unità militare e politica: se non si decide di fare davvero l’esercito europeo non ci sarà partita per noi»). Fino a Mario Draghi, che ha anche recentemente ricordato come l’Europa, a far le somme, sia seconda solo agli Usa per investimenti militari: «Ma lo si vede? Proprio no», perché «siamo tanti piccoli Paesi che si fanno concorrenza l’un con l’altro nell’industria della difesa. Così non andiamo da nessuna parte».
Qualcosa, ricorda l’ex ministro Lorenzo Guerini, si è mosso dopo il ritiro Usa dall’Afghanistan, con il varo della Bussola strategica e l’avvio di una crescente sinergia di ricerca e investimenti sulla difesa. L’obiettivo, dice, è di «rafforzare rapidamente il pilastro europeo della Nato», per raggiungere una «indipendenza nella capacità di difesa e autonomia strategica». Ma deve essere chiaro che «per arrivarci servono volontà politica, meccanismi decisionali diversi nella Ue e risorse ingenti».
Perché è certamente vero, dice il capogruppo di Italia viva al Senato Enrico Borghi, che «in prospettiva» una difesa comune europea comporta una «razionalizzazione delle spese». Ma «con buona pace degli anti-Nato e del pacifismo cialtrone, che non sa di che parla, deve esser chiaro che se gli Usa si sfilassero gli investimenti necessari schizzerebbero verso l’altro». Altro che 2% contestato dai grillini di Conte: «Bastano alcuni numeri – spiega Borghi, che fa parte del Copasir – per capire che prima che l’esercito europeo diventi un surrogato della Nato ce ne corre: senza neanche parlare di armamenti o portaerei, oggi in Europa ci sono 74mila militari americani, di cui 12mila in Italia e 36mila in Germania. Con chi li sostituiamo?».