Parole tenere al posto dei voti. Il maestro che non vuole giudicare

Parole tenere al posto dei voti. Il maestro che non vuole giudicare

Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti. Soprattutto a scuola dove si traducono in voti. Precisi, chiari e non soggetti a fraintendimenti di sorta. Li capisce perfino un bambino, appunto. Per Gabriele Camelo, maestro palermitano, la cui storia è stata raccontata da siti e giornali, non è così: preferisce dispensare vere e proprie lezioni motivazionali. Empatia, direbbe qualcuno. Ma fino a dove può spingersi un insegnante senza invadere la sfera genitoriale e quella intima degli alunni?

Ce lo chiediamo dopo aver letto alcune delle frasi scritte dal maestro sui quaderni dei bambini: «Sono fiero di te»; «Ti voglio bene»; «Sei migliorata nella gestione delle emozioni», «A volte ho difficoltà a capire se sei felice o triste, se sei d’accordo ti chiederò più spesso come stai?»; «Quando fai i compiti ti stimo».

Da padre si prova una strana sensazione. Un mix di fastidio per l’usurpazione del proprio ruolo e di rabbia per l’intromissione di un soggetto estraneo alla famiglia che si insinua tra le pieghe delle emozioni dei piccoli.

Che cosa scriverebbe quel maestro nel caso in cui un compito dovesse andare male? E, soprattutto: cosa succederà quando questi alunni alle scuole medie si misureranno con dei giudizi che non hanno mai ricevuto prima? Come reagiranno di fronte al primo insufficiente dopo esser stati coccolati per anni?

Per forza di cose cambierebbe il senso della valutazione e anche quello dell’orientamento. Insomma, occhio a non confondere l’empatia e la valutazione psicologica con il ruolo di docente il cui principale obiettivo è impartire le nozioni base per formare gli individui di domani. Tutto quello che è in più potrebbe essere un plus. Ma anche un vulnus.

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