Bufera su Netanyahu, ora la mozione di sfiducia: “Ha fallito”

Il premier Netanyahu non si piega: "No al cessate il fuoco"

La crisi degli ostaggi, assieme al braccio di ferro tra Tel Aviv e Hamas, rischia ora di minare alla base la stabilità del gabinetto di Benjamin Netanyahu. Da settimane, infatti, i parenti degli ostaggi sono sul piede di guerra, chiedendo conto delle trattative per liberare i propri cari. I familiari degli uomini e delle donne ancora nelle mani di Hamas hanno, infatti, piantato alcune tende davanti alla residenza del premier israeliano a Gerusalemme nella giornata di ieri. “Siamo rimasti scioccati nel sentire che il primo ministro ha deciso di sacrificare i nostri familiari lasciandoli al loro terribile destino nelle fauci dei mostri di Hamas“, le loro parole riportate da Channel 12. “Se avete deciso di sacrificare gli ostaggi ditelo onestamente. Chi li ha abbandonati ora ce li restituisca“. La crisi degli ostaggi possiede anche un lato parlamentare, investendo anche la Knesset.

I laburisti israeliani, che possiedono 4 seggi su 120 alla Knesset, presenteranno oggi una mozione di sfiducia contro il governo a causa di quello che ritengono “il suo fallimento nel riportare a casa gli ostaggi” trattenuti da Hamas a Gaza. Il partito stesso ha comunicato la decisione sottolineando che “il governo non sta prendendo le necessarie decisioni per salvarli e portarli indietro“. Guidati dalla 56enne Merav Michaeli hanno dichiarato di attendersi il supporto dei partiti di opposizione: le possibilità che la mozione passi, tuttavia, resta molto basse. Ma il suo significato politico resta.

I due no di Netanyahu

In queste ore, infatti, le levate di scudi contro Netanyahu sono molteplici, di fronte all’atteggiamento granitico del premier israeliano che si oppone fermamente alla soluzione dei due stati e al ricatto ordito da Hamas per la liberazione degli ultimi ostaggi. No secco anche alle richieste dei terroristi: “Chiedono in cambio del rilascio dei nostri ostaggi, la fine della guerra, il ritiro delle nostre forze da Gaza e il rilascio di tutti gli assassini e stupratori. Se fossimo d’accordo su questo il sacrificio dei nostri soldati sarebbe vano”, ha affermato il premier. Netanyahu ha ribadito, infatti, che nonostante le pressioni internazionali, fino a quando lui sarà il primo ministro di Israele non ci sarà uno Stato palestinese perché rappresenterebbe una “minaccia esistenziale” per lo Stato ebraico. Netanyahu ha commentato anche il colloquio avuto con Joe Biden ringraziando gli Stati Uniti per il sostegno ma, allo stesso tempo, ha confermato di essere fermo nel salvaguardare gli interessi vitali di Israele.

I sondaggi su Netanyahu: cosa accadrebbe se si votasse oggi

Se in Israele si tenessero oggi elezioni, dopo tre mesi e mezzo di guerra a Gaza, il partito di Unità nazionale di Benny Gantz conquisterebbe 37 seggi, più del triplo rispetto agli attuali 12, staccando l’attuale il Likud, che ne perderebbe la metà, fermandosi a 16. Questo è il risultato di un sondaggio condotto dall’emittente Channel 13. Il partito Yesh Atid di Yair Lapid si fermerebbe a 14 (rispetto ai 24 attuali), mentre l’estrema destra di Sionismo Religioso di Bezalel Smotrich insieme a Otzma Yehudit, uniti nella precedente tornata elettorale, prenderebbero rispettivamente 6 e 8 seggi. I partiti ultraortodossi Shas e United Torah Judaism ne conquisterebbero rispettivamente 9 e 7, i partiti arabo-israeliani Ràam e Hadash-Tàal 5 ciascuno, Yisrael Beitenu 9 e la sinistra radicale Meretz 4, mentre i laburisti resterebbero fuori dal Parlamento, così come Balad. Con questi numeri, l’attuale coalizione di governo (che detiene 64 seggi) scenderebbe a 46, mentre la precedente maggioranza salirebbe a quota 69. Nel sondaggio è stato preso anche in esame il caso di nuovi leader alla guida dei principali partiti: se fosse il ministro dell’Economia Nir Barkat a guidare il Likud, il partito passerebbe da 16 a 21 seggi, mentre se a capo di Unità nazionale ci fosse l’ex capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot, ne prenderebbe 39 invece che 37.

Le pressioni internazionali sul premier israeliano

Anche dall’Italia il ministro degli Esteri Antonio Tajani in un’intervista a La Stampa, ha dipinto la situazione in Israele come un muro contro muro. “Non è un compito facile. Netanyahu non vuole, Hamas non vuole. Il presidente israeliano Herzog mi è sembrato più disponibile a far nascere uno Stato palestinese. Con un interregno vigilato dall’Onu, sotto la guida di un Paese arabo“, ha affermato, ripetendo che “l’Italia è disponibile eventualmente a mandare dei soldati“. Anche Il ministro della Difesa britannico Grant Shapps ha definito “deludente” la posizione del primo ministro israeliano ai microfoni di Sky News, aggiungendo che per il Regno Unito “non c’è altra opzione” che la soluzione di due Stati per risolvere il conflitto nella regione.

Gli fa eco il ministro degli Esteri francese il ministro degli Esteri francese Stéphane Séjourné “Vogliamo un cessate il fuoco abbastanza rapidamente e poi, ovviamente, c’è la questione politica con la soluzione dei due Stati come prospettiva politica. Su questo le dichiarazioni di Benjamin Netanyahu sono preoccupanti: sarà necessario uno Stato palestinese con garanzie di sicurezza per tutti“. Una questione “prioritaria” per la Francia è “ovviamente il rilascio degli ostaggi, dato che ci sono cittadini francesi ancora prigionieri.

Decisa anche la reazione europea, a firma di un’Unione che cerca il suo ruolo in Medio Oriente: l’Ue starebbe valutando la possibilità di imporre “conseguenze” su Israele se il suo primo ministro continuerà a opporsi alla creazione di uno Stato palestinese. Una notizia rivelata ieri dal Financial Times e che riguarda la proposta, che sarà discussa oggi in occasione di una riunione dei ministri degli Esteri dell’Ue, che mette in luce “il crescente disagio” per la posizione di Israele da parte di molti dei suoi alleati occidentali. In un documento diffuso in vista dell’incontro e visionato dal quotidiano britannico Bruxelles ha proposto che gli Stati membri dell’Ue impongano conseguenze nel caso di impegno o di mancato impegno rispetto al piano di pace proposto. Il piano prevede la creazione di uno Stato per la Palestina e il riconoscimento reciproco della sovranità.

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