I nostalgici col braccio teso indignano oltremodo la sinistra. Quelli col pugno chiuso invece no. Chissà perché. Di fronte a questi ultimi, i progressisti non si scompongono mai, anzi fanno finta di niente, tacciono. Eppure, i compagni con la malinconia dei tempi andati – quelli che ancora oggi idolatrano il comunismo e i suoi deprecabili trascorsi sono attivi e ferventi più che mai. Tanto quanto gli anacronistici simpatizzanti del Ventennio. Proprio oggi, in diverse città italiane, si terranno commemorazioni per i 100 anni dalla morte di Lenin, dittatore sovietico ritenuto il maestro di Stalin nella pratica del terrore. «La sua figura è da anni demonizzata dal clima di anticomunismo che ha accompagnato l’affermarsi del capitalismo neoliberista», ha osservato il segretario di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo, che nel pomeriggio sarà a Livorno per le celebrazioni. «Contro il senso comune dominante ha inoltre aggiunto l’esponente politico – in decine di città esporremo lo striscione Abbasso la guerra, viva Lenin!». Sempre quest’oggi, a Vicenza, il portavoce del Partito Comunista dei Lavoratori, Marco Ferrando, presenterà un proprio libro dal titolo «Stalin e il Pci tra mito e realtà». Nella locandina che preannuncia l’evento, spiccano una falce e un martello, giusto per evitare equivoci sull’orientamento del dibattito. La nostalgia per l’ideologia rossa è la stessa che, nei giorni scorsi, aveva spinto i giovani del collettivo Cambiare Rotta ad attaccare il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, il quale aveva domandato ad alcuni giornalisti se fossero «anticomunisti» e dunque disposti a condannare tutte le dittature. «A Sangiuliano e alla sua consorteria diciamo che ci troveranno ai nostri posti: oggi più che mai, comunisti e rivoluzionari», avevano replicato i militanti, lanciandosi in un’apologia ai limiti del revisionismo. Così giovani, eppure già così indottrinati. Che dire, poi, dell’inno sovietico risuonato un anno fa in un congresso della Cgil al quale presenziava pure Maurizio Landini. O delle vergognose bandiere dell’ex Jugoslavia di Tito sventolate abitualmente dai centri sociali per oltraggiare le vittime delle foibe. In questi casi, la sinistra non ha mai sentito il dovere di prendere le distanze e di dichiararsi «anti», cosa che sul fronte opposto viene invece richiesta al centrodestra in riferimento ai nostalgici del Ventennio. Eppure, una risoluzione del Parlamento Europeo del 2019 equipara espressamente il nazifascismo al comunismo, esprimendo «inquietudine per l’uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica». Nelle piazze, nelle strade, nelle manifestazioni. Ma i progressisti si guardano bene dall’assecondarla e dallo spezzare quel filo rosso che ancora li lega al passato, tra simboli mai rinnegati da alcuni, slogan e piccole ritualità identitarie. Il pugno chiuso? E che sarà mai. L’elogio di Lenin e il culto della bandiera rossa? Nostalgia canaglia. Meglio prendersela coi fantasmi del fascismo. Tanto, poi, se a sinistra c’è qualcuno che esagera, la scusa è sempre pronta: è solo un «compagno che sbaglia».