La grandezza morale di Gramsci non ne cancella il violento bolscevismo

La grandezza morale di Gramsci non ne cancella il violento bolscevismo

«Antonio Gramsci e l’identità italiana» è il titolo di un articolo del ministro Gennaro Sangiuliano, pubblicato sul Corriere della Sera di mercoledì scorso. Il ministro lo conclude con queste parole: «Certo, Gramsci fu il fondatore del Partito comunista. (…) Ma questo non deve far velo ad una analisi oggettiva e libera del suo pensiero. Inoltre, appare doveroso il riconoscimento della sua statura e l’inclusione a pieno titolo nella dialettica della ideologia italiana».

Certo, la grandezza morale di Gramsci è fuori discussione: affrontò lunghi anni di carcere, che lo minarono nel fisico e che lo portarono a una morte precoce, senza deflettere mai dalle sue idee. Ma se si deve fare «una analisi oggettiva e libera del suo pensiero», non si può ignorare che esso si iscrive interamente nel leninismo e nella rivoluzione bolscevica. Nel 1919-20 (il «biennio rosso») Gramsci esaltò la violenza rivoluzionaria (che tanta importanza avrà nell’ingrossarsi del movimento fascista). Di tale esaltazione diede un saggio impressionante quando analizzò, su L’ordine nuovo, la natura della piccola e media borghesia italiana. «La borghesia dei funzionari pubblici padre-figlio, dei piccoli proprietari industriali e agricoli, commercianti in città, usurai nelle campagne». Questa piccola e media borghesia veniva definita da Gramsci «la peggiore, la più vile, la più inutile, la più parassitaria». Essa veniva paragonata a «una invasione di locuste putride e voraci». La guerra, diceva lo scrittore sardo, aveva valorizzato questa piccola e media borghesia, e lo Stato italiano l’aveva mobilitata; perciò essa doveva essere combattuta non solo politicamente, ma doveva essere annientata fisicamente.

Su questo punto Gramsci era fin troppo esplicito, e le sue parole non si prestavano a fraintendimenti: infatti, dopo aver detto che la piccola e media borghesia era «la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente, con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacché», Gramsci non esitava ad affermare, a proposito di questa classe, che bisognava «espellerla dal campo sociale come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco». Era dunque un programma di vero e proprio annientamento della piccola e media borghesia emersa con la guerra quello che la rivoluzione bolscevica italiana doveva proporsi, secondo Gramci. Non c’era da meravigliarsi, alla luce di queste affermazioni, se quella piccola e media borghesia sorta con la guerra o rafforzata da essa, di cui lo scrittore sardo predicava l’annientamento, avrebbe fornito i quadri al movimento fascista, ben deciso a porre fine alla minaccia bolscevica, vera o presunta che fosse (ma l’occupazione delle fabbriche, nel settembre del 1920 diede a vasti strati sociali la certezza che quella minaccia fosse ben concreta e reale).

Ma, ci viene subito ricordato, Gramsci è soprattutto l’autore dei Quaderni del carcere. I quali sono certo una grande opera di pensiero (condotta eroicamente, in condizioni difficilissime). E tuttavia non c’è nessun dubbio che nei Quaderni emerge un teorico totalitario. Gramsci vi dava infatti questa caratterizzazione, divenuta famosa, del ruolo e dei compiti del «moderno Principe» (come egli definiva il Partito comunista, con un significativo richiamo alla concezione demiurgica di Machiavelli): «Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha, come punto di riferimento, il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume».

Con queste parole Gramsci esprimeva – nonostante le sue aspirazioni ad un laicismo moderno – una concezione integralmente totalitaria della società, poiché in essa «il moderno Principe», ovvero il partito comunista, era posto al centro della vita dell’uomo in tutti i suoi aspetti: il nuovo Leviatano veniva a identificarsi con tutta la vita sociale e culturale, copriva tutti gli spazi della società civile, e non lasciava margini di autonomia o di indipendenza nemmeno nel foro interno, nemmeno nella vita intellettuale e morale (dove veniva a costituire una nuova divinità o un imperativo categorico).

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