“Io condannato per il ricordo di Ramelli dico basta coi processi alle astrazioni”

"Io condannato per il ricordo di Ramelli dico basta coi processi alle astrazioni"

«Ovviamente non ci aspettavamo una sentenza che dicesse che il saluto romano è lecito sempre e comunque. Speravamo però si facesse maggior chiarezza sul punto delle cerimonie di commemorazione per i caduti. Per capire quanto questo sia avvenuto, dovremo aspettare le motivazioni. Ci sono però due aspetti che mi lasciano contento».

Marco Carucci è uno degli otto estremisti di destra milanesi che si sono visti annullare la condanna dalle Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza che giovedì ha ordinato per loro un nuovo processo: e ha disegnato con maggiore precisione i casi in cui i riti del fascismo – il saluto romano, il «Presente!» – costituiscono ancora un reato.

Cosa le piace di questa sentenza?

«Per la commemorazione del 2016 di Sergio Ramelli eravamo stati condannati per istigazione all’odio. Questo mi ripugnava ed era un oltraggio anche alla memoria di Sergio. La sua storia trasuda odio, è vero: ma Sergio di quell’odio fu vittima, non si piegò, continuò la sua attività di militante e pagò con la vita. Ora ci processeranno per la legge Scelba, per apologia di fascismo. Vedremo come andrà a finire. Ma la condanna per istigazione all’odio razziale era un affronto».

L’altro aspetto positivo?

«É quando le Sezioni Unite dicono che per essere punibile il saluto romano ci deve essere un pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista. Finora venivamo condannati sulla base di un pericolo astratto, e come ti difendi da un magistrato che vede un’astrazione?»

Continuerete a fare il saluto romano?

«Dipende dalle motivazioni. Se, come sembra, verrà stabilito che nel corso delle commemorazioni non è perseguibile, se non sarà più rischioso farlo, sarà opportuno riflettere. Fino ad ora smettere sarebbe stato un regalo all’antifascismo della sinistra dei talk show. É stato giusto portare la battaglia fino in fondo. Arriviamo a testa alta, senza aver piegato la schiena a un antifascismo che prima ha ammazzato i nostri fratelli e poi ha avuto la pretesa di dire a noi se e quando fosse possibile commemorarli e perfino come e in che modo farlo. Se ora quel gesto non rappresenterà più un rischio, ai miei occhi smette di essere anche un dono da portare ai nostri caduti. Temo possa diventare un gesto auto-commemorativo. Se così fosse, dobbiamo raccogliere la sfida di immaginare nuove forme di commemorazione che portino il ricordo di Ramelli a essere di tutta la città e non più solo una memoria intima e comunitaria».

É stato saggio in questi anni accomunare nelle vostre cerimonie un ragazzo come Ramelli a due ex repubblichini come Carlo Borsani e Enrico Pedenovi?

«Quando è stato ucciso Pedenovi era un uomo delle istituzioni, un consigliere provinciale. E Borsani era un eroe di guerra, come tale ancora citato sul sito della Presidenza della Repubblica, che a guerra finita venne torturato, ucciso e poi vilipeso. Un antipasto del clima d’odio che un certo antifascismo ha portato avanti, prima con spranghe e mitragliette skorpion, ma che ancora alimenta le lingue e le penna dei suoi epigoni odierni».

Temevate che le polemiche sollevate dalla commemorazione a Roma delle vittime di Acca Larentia condizionassero la decisione delle Sezioni Unite?

«E perchè avrebbero dovuto? Mica è stato fatto per la prima volta quest’anno per provocazione. Io il 7 gennaio vado tutte le volte che posso a Acca Larentia, che non è solo un momento forte e intenso: è una richiesta di verità. Il sindaco di Milano l’altro giorno ha chiesto la riapertura delle indagini sulla morte di Fausto e Iaio, i due ragazzi del Leoncavallo, e a me ha fatto piacere. Ma a Roma ci sono altri due ragazzi che aspettano giustizia da quarant’anni e questo sembra interessare solo a noi».

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