Formalmente Giuseppe Conte era ancora a Palazzo Chigi, e magari non avrà agito proprio «con il favore delle tenebre», però insomma, dice Giorgia, la ciccia sul Mes, approvato in fretta e furia nel dicembre 2020, non cambia. «Il governo – questo il ragionamento della premier – non aveva più un mandato parlamentare perché la crisi si era aperta con il ritiro dei ministri di Italia Viva ed era quindi venuto meno il mandato fiduciario della maggioranza su cui doveva poggiare la firma italiana alla riforma del Meccanismo di stabilità». E dunque «non esistevano le condizioni per portare in Aula quell’accordo», figuriamoci di farlo votare, ma si è scaricato il problema sugli esecutivi che sono subentrati.
A mezzogiorno la Meloni entra nella sala della biblioteca del presidente della Camera per essere ascoltata dal Giuri d’onore chiesto dal leader di M5s. Conte, sentito giovedì, sostiene che la premier abbia detto il falso quando, il 13 dicembre scorso, mostrò alle Camere il fax di Luigi Di Maio in cui si dava all’Eurosummit il via libera alla sigla sul patto. La questione è: un governo che entra in crisi, in carica per gli affari correnti, può fare certe scelte? Siamo di fronte a un atto politico o all’ordinaria amministrazione? La risposta della Meloni è no. «Questa vicenda – le sue parole durante il dibattito – dimostra la scarsa serietà di un governo che prima di fare gli scatoloni lasciava un simile pacco al governo successivo».
Concetti che Giorgia ribadisce a Montecitorio. Saluta il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, stringe la mano ad uno a uno a tutti i componenti della commissione, si siede al tavolo, allinea davanti a sé una serie di foglietti di appunti, scritti con una calligrafia piccola e ordinata, parla per un’ora spiegando il senso della frase «incriminata». Il governo era in crisi, ufficialmente non dimissionario, tuttavia politicamente al capolinea. «Il mandato parlamentare non c’era più», insiste. Proprio il Mes era «un elemento centrale» di scontro che ha portato alla caduta dell’esecutivo. E come prova, porta le dichiarazioni di Matteo Renzi e dei ministri di Italia Viva, Elena Bonetti e Teresa Bellanova. Il Conte 2 era alla frutta e ha «scaricato» sui successori le responsabilità.
Finisce così, verso l’ora di pranzo, senza dichiarazioni pubbliche. «Si è svolto tutto nella massima serenità, ieri e oggi», racconta Mulè, presidente del Giuri. «Entrambi i protagonisti hanno illustrato le loro posizioni, adesso leggeremo il resoconto integrale. Finora i commissari non hanno chiesto nuove audizioni». Si studieranno le carte. «Il prossimo passaggio è di approfondire, mettere a confronto le dichiarazioni del presidente Conte e del presidente Meloni, formarsi un’idea sugli atti parlamentari e su tutto ciò che abbiamo a disposizione e successivamente redigere la relazione da presentare entro il nove febbraio».
Non ci sarà un verdetto, chiarisce Mulè. «Il Giuri è chiamato a dichiarare la fondatezza o meno di alcune espressioni usate dal presidente del Consiglio che il presidente Conte ritiene essere false e non veritiere. Il rapporto, che non sarà soggetto a discussione o votazione, verrà letto in Aula che prenderà atto». Si tratta di dirimere una questione, conclude, «non di produrre una sentenza». Come finirà? Uno, x, due.