È passata un’altra settimana e sembra che in Medio Oriente la situazione continui a muoversi lungo un piano sempre più inclinato. Le ostilità tra Israele e Hamas non sono cessate; gli attacchi dei ribelli Houthi in Yemen contro le navi mercantili sono proseguiti (a farne le spese nei giorni scorsi è stato un cargo battente bandiera greca); in più, si è aperto un nuovo fronte di scontro tra Iran e Pakistan con Islamabad che ha effettuato un blitz aereo contro militanti separatisti iraniani in risposta all’attacco subito da Teheran contro le basi di un altro gruppo in territorio pakistano. Quanto siamo lontani dall’orlo di un baratro che potrebbe portare a un’escalation di livello globale?
In questi giorni si è discusso della possibilità di istituire una missione navale europea con la finalità di proteggere il transito delle navi mercantili nel Mar Rosso. La missione, denominata Aspis (che significa «scudo» in greco antico), dovrebbe essere approvata ufficialmente lunedì prossimo e sarà portata avanti sotto il coordinamento dell’Alto Rappresentante Ue per la Politica estera, Josep Borrell, e in collegamento con la missione «Prosperity Guardian» già messa in atto dalla marina statunitense con quella britannica. L’Italia ha – giustamente – deciso di contribuire a questa missione, che avrà come primo obiettivo quello di ristabilire l’operatività dei transiti nel Mar Rosso in modo che la rotta attraverso il Canale di Suez sia nuovamente utilizzabile. Circostanza necessaria per evitare che l’economia globale precipiti nuovamente in una spirale inflattiva che infliggerebbe un duro colpo in una fase congiunturale già piuttosto debole.
Dal punto di vista giuridico e operativo, la partecipazione dell’Italia ad Aspis è perfettamente in linea con il nostro ordinamento costituzionale e rappresenta un contributo ideale in questo momento. Anche perché è impossibile fare di più (ovvero autorizzare l’intervento di un contingente militare internazionale contro gli Houthi) in assenza di un mandato diretto da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’Onu dovrebbe, infatti, dichiarare la situazione nel Mar Rosso come una minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionali, ma è chiaro che Russia e Cina intendono far valere il proprio diritto di veto senza concedere “luce verde” agli Stati Uniti.
Dunque, le missioni navali non possono essere altro che un provvedimento tampone fino a che non si troverà una soluzione al problema da cui tutto ha avuto origine, ovvero il conflitto tra Israele e Hamas. Nonostante le pressioni degli attori terzi (Stati Uniti e Arabia Saudita in primis), le parti in causa non sembrano disposte ad accettare un “cessate il fuoco”. Netanyahu (forse sempre più vincolato politicamente a casa sua) ha ribadito che Israele non intende accettare la creazione di uno Stato palestinese indipendente fino a quando Hamas non sarà stata completamente sradicata da Gaza. La soluzione dei «due Stati» resterà in stand-by fino a quando non ci sarà un completo riconoscimento dell’esistenza di Israele anche da parte di tutti gli altri Stati della regione, a cominciare dall’Arabia Saudita. Dall’altra parte, Hamas continua a ritardare la liberazione degli ostaggi israeliani (con l’annuncio nei giorni scorsi di altri due morti).
Che fare allora? La questione rischia di avvitarsi sempre di più, anche a causa del contesto esterno alle due parti in causa che è a sua volta caratterizzato da tensioni geopolitiche. È già stata menzionata la rivalità degli Usa con Cina e Russia, ma anche l’isolamento dell’Iran sta giocando una parte significativa in questa delicata situazione. L’interruzione dei negoziati Jcpoa per lo smantellamento del programma nucleare di Teheran, decisi dagli Usa in parallelo all’inasprimento delle sanzioni, hanno portato ad un ulteriore irrigidimento del regime degli ayatollah. Disinnescare la miccia del conflitto a Gaza è la condizione essenziale per allontanare il rischio di una guerra regionale (a partire dalla cessazione degli attacchi da parte degli Houthi) da cui sarebbe molto difficile tornare indietro.