È arrivato a testa bassa per proteggersi dall’oceano fosforescente dei paparazzi. E una volta in aula si è accartocciato ancora di più in un sussulto di singhiozzi. Ha pianto molto, moltissimo, per tutto il tempo. Odiare ha sempre un che di innaturale, per quanto, sul momento, possa rappresentare una tentazione irresistibile. Le lacrime di Alessandro Impagnatiello non hanno allontanato la tentazione. Ha reso delle dichiarazioni spontanee perché ne aveva diritto, ha chiesto scusa perché doveva farlo, si è mostrato disperato perché probabilmente gli conveniva. Pensando alle trentasette coltellate, al veleno, ai tradimenti, alle bugie, alla crudeltà è difficile pensare che gli si sia messa in moto l’empatia. Ed è stato ancora più difficile sentirlo parlare di Thiago, il figlio al quale in ogni modo ha impedito di nascere: «In un giorno ho distrutto la vita di Giulia e del figlio che aspettavamo» ha detto. Magari fosse stato in un giorno, avvelenava la compagna e il feto che aveva nella pancia, il suo bambino, già da mesi: topicida, ammoniaca e cloroformio somministrati dal barman in piccole dosi e meticolosamente. Si è rivolto ai genitori di Giulia chiedendo perdono e ha premesso: «Non chiedo che queste scuse vengano accettate perché sento ogni giorno cosa vuol dire perdere un figlio». Magari l’avesse perso, lo ha ammazzato, suo figlio. Pianificando, calcolando, insistendo in un disegno di morte che non ha nulla di umano. Quando l’amante di Impagnatiello aveva scoperto da una foto scattata al mare che Giulia era incinta e aveva chiesto spiegazioni, lui aveva detto che il figlio che portava in grembo non era suo. E per convincerla le aveva mostrato un finto esame del Dna che lui stesso aveva fabbricato. Persino in quell’occasione ha negato Thiago, l’ha staccato da sé già allora. Vile anche solo nel dichiararsi padre. Figuriamoci ad esserlo.