“È baratto sulle riforme tra Meloni e Salvini, disegno sciagurato”. La sentenza è arrivata ieri direttamente dalla segretaria del Pd Elly Schlein che, con queste parole, ha bocciato in un colpo solo sia l’autonomia differenziata voluto principalmente dalla Lega sia il premierato, tanto caro alla premier Giorgia Meloni.
Questa linea è stato portata avanti anche oggi a Palazzo Madama.“Non vi siete nemmeno sforzati di nascondere quello che è un vero e proprio baratto, siamo in presenza del barattellum”, ha detto il senatore dem Andrea Martella mettendo in evidenza la strana coincidenza dell’inizio della discussione in commissione del premierato proprio nel giorno in cui nell’Aula del Senato arriva l’autonomia differenziata. L’autonomia differenziata e il rafforzamento dei poteri del premier, però, sono da sempre nel dna del centrodestra. L’aspirazione della destra italiana è sempre stata quella di eleggere il presidente della Repubblica, i cui poteri, in questo caso, invece, non vengono toccati. Si è arrivati a un compromesso che prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio, ma si continua a parlare di “baratto” quando, in realtà, questo termine è di casa proprio nel centrosinistra.
Ecco alcuni esempi. Il governo giallorosso, il Conte-bis, nacque proprio su uno scambio tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico. I dem si impegnarono a votare la riduzione del taglio dei parlamentari (riforma verso la quale nutrivano un’avversione particolare), mentre i grillini avrebbero dovuto appoggiare la riforma della legge elettorale in senso proporzionale. Alla fine, poi, la legge elettorale non venne modificata perché il Conte-bis cadde per altri motivi e il governo Draghi non affrontò il tema. “Il Pd avrebbe voluto tornare al proporzionale per ridurre gli effetti della sconfitta, ma non vi furono mai i numeri per farlo perché, una volta che nacque il governo Draghi, Salvini pose il veto sul proporzionale”, spiega un esponente del Pd esperto di riforme costituzionali.
Questo, però, è soltanto l’ultimo esempio dei moltissimi “baratti” fatti dalla sinistra italiana. Il tortuoso percorso delle riforme della stagione renziana fu costellato da accordi tra l’allora presidente del Consiglio e la minoranza piddina che operava quasi come un partito dell’opposizione. Tutti ricordano che Massimo D’Alema brindò quando Matteo Renzi perse il referendum nel dicembre del 2016 e tutta la sinistra dem era preoccupata degli effetti del “combinato disposto” della riforma costituzionale e dell’Italicum, la legge elettorale a doppio turno che poi venne dichiarata incostituzionale nel 2017.
Andando a ritroso nel tempo, infatti, la riforma del Titolo V della Costituzione, quella che, in sostanza, introdusse il federalismo in Italia, venne approvata nelleultime settimane di vita della legislatura a colpi di maggioranza. Il motivo? Fu un semplice accordo politico all’interno delle forze di centrosinistra (che oggi il Pd definirebbe un “baratto”) e che prevedeva, appunto, l’approvazione della riforma come conditio sine qua non per la candidatura di Francesco Rutelli a candidato premier. L’allora sindaco di Roma, infatti, secondo i rumors dell’epoca, spinse il governo guidato da Giuliano Amato a cambiare l’assetto costituzionale come bandierina da poter esibire in campagna elettorale. “Nel 2001 io c’ero ed ero contrario ad approvare la riforma a colpi di maggioranza, ma all’epoca si pensava che potesse servire per racimolare voti tra gli autonomisti moderati. Il baratto vero, però, non è questo ma quello che si fece per dar vita al Conte bis…”, spiega un autorevole esponente del centrosinistra a ilGiornale.it.