L’Iran alza la tensione: raid dall’Irak al Pakistan

L'Iran alza la tensione: raid dall'Irak al Pakistan

Un’esibizione di potenza, un segnale ai nemici. L’Iran esce dalle retrovie, dove si muove foraggiando con armi e denaro Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano e gli Houthi nello Yemen. E stavolta Teheran agisce in maniera plateale in Siria, Irak e Pakistan. Nella notte fra lunedì e martedì le Guardie Rivoluzionarie iraniane hanno colpito con 13 missili balistici presunti obiettivi dello Stato Islamico a Idlib, in Siria, e con 11 missili un presunto quartier generale del Mossad a Erbil, in Kurdistan, nel nord dell’Irak, dove 5 civili sono rimasti uccisi, fra cui un bimbo di 11 mesi e Peshraw Dizayee, magnate curdo del settore immobiliare. Nella serata di ieri un terzo inatteso attacco con missili e droni, stavolta in Pakistan, contro due basi del gruppo terroristico sunnita Yeish al Adl.

Il regime sciita di Teheran adotta la strategia della tensione e mostra i muscoli al «Grande Satana», l’arcinemico Israele, agli Stati Uniti, ma anche ai rivali interni al mondo islamico, quei sunniti dell’Isis e del gruppo pakistano Yeish al Adl che opera nel sud-est dell’Iran. La presenza in Irak di una base militare del Mossad, il servizio segreto israeliano all’estero, viene definita «una falsità» da Baghdad, che convoca l’incaricato d’affari iraniano e richiama per consultazioni il proprio ambasciatore. Il ministero degli esteri iracheno definisce l’attacco a Erbil una chiara violazione della sovranità dell’Irak e dalla Francia agli Usa all’Onu si alzano voci di dura condanna per le azioni del regime degli ayatollah. «Irresponsabili» commentano da Washington. Teheran usa invece il solito linguaggio antisemita per sostenere che gli attacchi siano la risposta «ai recenti atti malvagi del regime sionista». Il riferimento è all’assassinio, in Siria, del generale iraniano Razi Moussawi, e poi alle uccisioni in Libano del numero due di Hamas, Al Arouri, e del comandante di Hezbollah, Al Tawil. Quanto al colpo inferto allo Stato islamico in Siria, si tratta della vendetta per l’attentato del 4 gennaio a Kerman, in Iran, quando 90 persone sono state uccise vicino alla tomba del generale iraniano Soleimani, in un attacco rivendicato dall’Isis.

Le azioni militari di Teheran «contribuiscono all’escalation delle tensioni regionali e devono cessare» è il monito degli Stati Uniti. Ma è evidente che il conflitto a Gaza è solo uno dei fronti aperti fra il sedicente «asse della resistenza» composto da Hamas, Hezbollah, Houthi e Iran e Israele e Usa dall’altra. Hamas ieri ha continuato a colpire con 50 razzi (intercettati) lo Stato ebraico, che ha eliminato «decine» di terroristi nel nord di Gaza. Nonostante 103 giorni di guerra, il gruppo nelle cui mani ci sono ancora circa 130 ostaggi non smette di prendere di mira lo Stato ebraico. L’esercito d’Israele ha colpito a sua volta 150 obiettivi in Libano, pronto al conflitto contro Hezbollah. Come se non bastasse, anche la Turchia ha lanciato raid contro militanti curdi nel nord dell’Irak e in Siria, distruggendo 23 obiettivi. Ultimo ma non da ultimo, anzi con pesantissime ripercussioni economiche per l’Europa, un nuovo attacco degli Houthi dello Yemen ha preso di mira una nave greca nel Mar Rosso, provocando nuovi raid anglo-americani e la decisione della compagnia petrolifera britannica Shell di interrompere la navigazione nell’area, preferendo la circumnavigazione dell’Africa. Il Comando centrale degli Stati Uniti ha annunciato di aver sequestrato, per la prima volta, armi avanzate iraniane destinate agli Houthi l’11 gennaio. L’unico segnale di speranza arriva dall’Arabia saudita, che si dice pronta a riconoscere Israele se la questione palestinese si risolverà con la nascita di uno Stato palestinese.

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