Dietro ai banchi delle nostre scuole convivono ragazzi con problemi di apprendimento, dislessia, disgrafia, disturbi dell’attenzione, disabilità più serie e piani didattici personalizzati. Una varietà di esigenze che non sempre gli istituti sono in grado di gestire. Tanto da indurre Ernesto Galli della Loggia, editorialista del Corriere della Sera, a definire fallimentare l’inclusione dei disabili a scuola. Un’inclusione, dice, annunciata sulla carta ma mai realmente messa in atto, che si limita a far convivere in un’unica classe alunni con problemi di apprendimento e non. «Il risultato – scrive a conclusione del suo ragionamento – lo conosciamo». Lasciando intendere che la scuola sforna ragazzi con una preparazione discutibile. E aprendo un acceso dibattito sulla necessitò di rispondere alle esigenze degli studenti con difficoltà di apprendimento senza penalizzare i livelli di istruzione in classe.
Ed è vero che la confusione sull’argomento inclusione è parecchia, ma come risolverlo? Ovviamente non avrebbe senso dare retta a chi ventila ipotesi assurde come le classi ghetto di soli Bes, i ragazzi con bisogni educativi speciali. Così la classe dei normodotati potrebbe procedere spedita con il programma ministeriale senza zavorre? L’ex ministro Andrea Orlando ricorda su X cos’erano le scuole speciali e quanto sia stata una conquista sociale chiuderle. Le associazioni dei disabili insorgono parlando di «stigmi e pregiudizi inaccettabili». Su una cosa però ha ragione della Loggia: perché l’inclusione sia reale, c’è ancora da fare molta strada. E va ancora trovato quel punto di equilibrio che non penalizzi gli studenti «bravi» ma non lasci indietro nessuno. Su 7 milioni di studenti, circa un milione presenta difficoltà: i disabili sono 316mila (15mila alunni in più nell’ultimo anno) e più dell’8% dei ragazzi (circa 600mila) ha problemi di apprendimento (disgrafia, dislessia, discalculia, bisogni educativi speciali). Ognuno ha le sue esigenze, ognuno chiede continuità e una vaga forma di serenità, di maturazione. Ma la scuola non è sempre in grado di dargliela. La stessa scuola che insegna Dante, terzina per terzina, pretendendo di trasmettere ai ragazzi quanto può essere variegata e multiforme la società, non ha risposte per tutti. I prof di sostegno sono solo 207mila, con un rapporto insegnante/alunno di 1,5, leggermente sotto la media europea. Ma, al dì là dei numeri, c’è anche un problema di qualità della formazione: il sostegno ai disabili gravi viene spesso dato dal prof di matematica o di musica che, pur di vedersi rinnovare il contratto per tutto l’anno scolastico, si improvvisa in qualche modo, senza specializzazione nel 32% dei casi. E poi cosa vuol dire sostegno? Veramente vogliamo continuare con la scena del compagno disabile relegato in un banchetto in fondo alla classe con i suoi libri, il suo programma, il suo insegnante? Non si riesce a strutturare qualcosa di più inclusivo? Magari proprio partendo da quella personalizzazione della formazione di cui da mesi parla il ministero dell’Istruzione. Come insegnare ai nostri figli a non escludere? E come motivare uno studente con difficoltà di apprendimento a lasciare gli studi? Che i parametri dell’inclusività vadano rivisti lo ha capito bene il ministro all’Istruzione Giuseppe Valditara che ha già in mente un piano per oliare i meccanismi scolastici e per ridurre i numeri della dispersione (oggi uno studente su 5 interrompe gli studi dopo la terza media).
Il ministero intende stabilizzare le cattedre di sostegno, da assegnare solo ed esclusivamente a insegnanti con una preparazione adatta e mirata. Inoltre punta a garantire maggior continuità nell’insegnamento. Cioè: non una staffetta di tre professori di sostegno diversi nell’arco dell’anno scolastico, ma uno solo a cui affidarsi e legarsi in un percorso di formazione più ordinato. Tanto che, se il prof è precario, le famiglie degli alunni possono chiedere alla preside della scuola di stabilizzarlo l’anno successivo e quello dopo ancora. «L’inclusione – spiega il ministro Valditara – è un valore della nostra scuola che rivendichiamo. Perché sia reale però, e non solo declamata, è necessario che si mettano in campo gli strumenti per una didattica più efficace, che consentano di contemperare le esigenze di tutti gli studenti. Per gli alunni con disabilità, per esempio, prevediamo docenti adeguatamente specializzati e un sistema che consenta la continuità didattica. Occorrono forme diverse anche per gli stranieri, perché i dati ci dicono che l’attuale sistema non funziona».
Le associazioni che si occupano di disabilità chiedono ordine e linearità: «Il banco del ragazzino disabile non deve essere solo un’appendice della classe – interviene Vincenzo Falabella, presidente di Fish, la federazione italiana per il superamento dell’handicap – Per una vera inclusione l’insegnante di sostegno non deve essere assegnato a un alunno ma all’intera classe, per un reale coinvolgimento e l’impostazione di un percorso. Teniamoci cari i risultati sociali raggiunti: fino a un po’ di anni fa un ragazzo down mai sarebbe riuscito arrivare alla laurea, oggi invece è possibile». Le basi su cui lavorare per migliorare l’inclusività ci sono. A cominciare dalla legge 227/21 in cui uno dei decreti applicativi parla di «progetto di vita» duraturo per il singolo ragazzo disabile, un percorso che lo accompagni dalla scuola al lavoro. Se si parla di progetto, la scuola smetterà di essere un parcheggio, come spesso capita, ma sarà un pezzo di un puzzle più ampio.
Gli ostacoli non mancano. E non solo perchè i prof di sostegno e i soldi non bastano mai. Ma anche perchè, dopo la terza media, è molto difficile che un disabile continui gli studi. Nei casi di handicap gravi sono gli stessi presidi degli istituti a «fare orecchie da mercante»: non potendo rifiutare esplicitamente la richiesta di iscrizione, capita pongano parecchi ostacoli alle famiglie. Ecco, scrivere in una legge «percorso di vita» potrebbe essere la base giusta per combattere anche queste reticenze.